13 L'onere della prova: una questione aperta

La disamina delle problematiche relative all'onere della prova, soprattutto con riferimento all'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale dei disposti legislativi, abbisogna di alcuni chiarimenti relativi ai lineamenti generali in tema di prova[1].

Il percorso storico del principio di base espresso nell'antico brocardo actori incumbit probatio e nell'altro ei incumbit probatio qui dicit non qui negat,  si ritrova nella lettura dell'art. 2697 cod. civ., secondo il quale <<Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda>>.

Orbene, l'interpretazione che qui s'accoglie[2] individua nell'articolo in esame due fondamentali funzioni: da un lato quella di ripartire l'onere della prova, dall'altro quella di consentire comunque al giudice di decidere, accogliendo o rigettando la domanda, sulla base del collegamento sistematico con l'art. 116 cod. proc. civ. che, affermando il principio del libero convincimento, completa il quadro. Di conseguenza il giudice non può limitarsi ad un mero non liquet ma decidere, applicando, se gli elementi offerti non consentono il raggiungimento della prova, la regola dell'art. 2697 cod. civ.

Giova inoltre ribadire che l'applicazione di quest'ultima trova un proprio spazio solo quando non esistono regole particolari sull'onere  della  prova, quale quella -che qui interessa- dell'art. 1218 cod. civ.[3]

A ben vedere, peraltro, la scelta terminologica[4] operata dal legislatore - mi riferisco al termine e soprattutto al concetto di <<onere>>- sembra non soddisfare pienamente; normalmente infatti il concetto di onere sottende il rapporto esistente tra l'esercizio di una determinata facoltà e il conseguimento di un interesse. Ebbene, se l'accezione accolta dal legislatore, nella formulazione dell'articolo in oggetto, fosse stata veramente quella tradizionale poc'anzi descritta, se ne dovrebbe dedurre che tutte le volte che la parte sulla quale grava l'onere della prova non vi provveda, dovrebbe derivarne l'impossibilità di conseguire l'interesse o il risultato al quale si tende. Ma non è così.

Infatti il giudice può decidere in senso favorevole anche se l'attore non fornisce la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, quando emergano prove, a quest'ultimo favorevoli, provenienti dalla controparte o da un terzo che sia intervenuto nel giudizio, talché dovrà decidere in senso sfavorevole a chi non ha dimostrato i fatti che costituiscono il fondamento della propria pretesa solo quando gli sia impossibile decidere tenendo in considerazione tutti gli elementi che siano stati acquisiti al processo.

Ne consegue che nella situazione esaminata ci si trovi al cospetto non tanto di un onere, nel senso sopra descritto, piuttosto di un <<aumento del rischio>> -non di un'automatica impossibilità di veder soddisfatta la propria pretesa- ricollegato al mancato soddisfacimento del <<comportamento prescritto>> dall'art. 2697 cod. civ.

            Svolte queste brevi considerazioni preliminari, è possibile affrontare più specificamente le problematiche sottese alla prova della responsabilità in ambito sanitario, e all'elaborazione giurisprudenziale che ne ha caratterizzato il delinearsi.

In primo luogo, in dottrina, si discute sulla configurabilità di un autonomo obbligo di chiarimento che potrebbe sussistere in capo a coloro che non sono onerati ai sensi dell'art. 2697 cod. civ. Si può notare come tale aspetto controverso possa assumere peculiare rilievo proprio nel caso delle azioni di responsabilità professionale, laddove si realizza una fattispecie caratterizzata dalla circostanza che il paziente si trova quasi sempre sprovvisto della documentazione e dei mezzi di prova per far valere la propria pretesa. Quindi per i fautori della tesi che privilegia l'individuazione autonoma di un obbligo di chiarimento, quest'ultimo lo si dovrebbe rinvenire in capo ai sanitari, come accade in altri Paesi. Ad ogni buon conto la giurisprudenza italiana si è attestata su posizioni diverse, preferendo alleggerire la posizione del tutto peculiare del malato limitandone l'onere probatorio, e ponendo piuttosto in capo al sanitario l'onere di provare l'adeguatezza della propria prestazione professionale, prestando però il fianco ad una critica, ovverosia quella di aver trattato, quasi confondendoli, onere della prova e obbligo di chiarimento.

Conseguenza immediatamente apprezzabile è quella che si assiste così allo spostamento del rischio del mancato convincimento del giudice dall'onerato, ex art. 2697 cod. civ., all'altra parte, sulla quale sarebbe semmai gravato esclusivamente l'onere di chiarimento.

Ma il nostro ordinamento giuridico prevede anche altre regole riguardanti l'onere della prova, che comportano conseguenze differenti. Tra queste le c.d. presunzioni iuris tantum -che ammettono cioè la prova contraria- le quali, al pari dell'art. 2697 cod. civ., da un lato ripartiscono l'onere della prova, dall'altro stabiliscono una regola di giudizio, indicando al giudice come deve decidere la controversia ove la parte che risulta onerata non abbia fornito la prova richiesta. La ratio di tali previsioni è ricollegabile vuoi a criteri di esperienza, vuoi a criteri di probabilità, infine a criteri di verosimiglianza.

E ancora si possono ricordare le presunzioni iuris et de iure -c.d. assolute- che non ammettono la prova contraria.

            Tra le norme che, come anticipato, presentano una diversa ripartizione dell'onere della prova deve segnalarsi, soprattutto ai fini della presente esposizione, la regola di cui all'art. 1218 cod. civ., secondo la quale sul debitore che non ha eseguito esattamente la prestazione, grava l'onere di provare che l'inadempimento o il ritardo sono dovuti a impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, essendo tenuto, in caso contrario, a risarcire il danno.

La giurisprudenza, attestatasi fino agli anni '70 su posizioni piuttosto favorevoli al medico, ha cominciato in quegli anni a mutare il proprio indirizzo, fino a creare una sorta di inversione dell'onere della prova nei casi di non difficile esecuzione dell'intervento. All'uopo risulta di estrema chiarezza una recentissima sentenza della Cassazione[5], non ancora pubblicata, ove si legge che:

 

nel  giudizio  avente ad oggetto l'accertamento della responsabilita' del medico  chirurgo  per  l'infelice  esito di un intervento chirurgico, l'onere della  prova  si  riparte  tra  attore  e  convenuto  a  seconda della natura dell'intervento  effettuato,  e  precisamente: 

a)  nel caso di intervento di difficile  esecuzione,  il  medico  ha  l'onere di provare soltanto la natura complessa  dell'operazione,  mentre  il  paziente ha l'onere di provare quali siano  state le modalita' di esecuzione ritenute inidonee;

b) nel caso di intervento  di  facile  o routinaria esecuzione, invece, il paziente ha il solo onere  di provare la natura routinaria dell'intervento, mentre sara' il medico,  se vuole andare esente da responsabilita', a dover dimostrare che l'esito negativo non e' ascrivibile alla propria negligenza od imperizia.

 

Quindi a dispetto di un intervento di facile esecuzione e del peggioramento delle condizioni del paziente che vi si è sottoposto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, per indirizzo ormai costante[6], distribuisce l'onere della prova tra le parti nel senso di far gravare sul paziente l'onere di provare che l'intervento e/o la terapia erano di facile esecuzione e che ne è derivato un risultato peggiorativo, e sul sanitario l'onere di  fornire la prova contraria, ossia la prova che la sua prestazione è stata eseguita diligentemente e che l'esito dannoso è stato provocato da un evento sopravvenuto imprevisto ed imprevedibile, ovvero da una pregressa condizione particolare del malato che non è stato possibile accertare con la dovuta diligenza professionale.[7]

Quanto poi all'eventualità, che la giurisprudenza più recente ritiene possibile, ossia quella che con il chirurgo estetico il paziente perfezioni  un  contratto  avente ad oggetto un'obbligazione di risultato

-piuttosto che di mezzi-, la prova di tale contenuto grava sul paziente, così come sul medesimo grava  l'onere di provare l'insufficiente informazione ricevuta dal sanitario[8].

 

Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale Consumerlaw

 

 


Note:

[1] S. PATTI, Prove. Disposizioni generali, in Comm. al cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna, Zanichelli, 1987.

[2] Il riferimento è all'Autore indicato nella nota precedente.

[3] Art. 1218. - Responsabilità del debitore

Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

[4] S. PATTI, Op. cit.,33 e segg.

[5] Si tratta della sen. 01127 del 04/02/1998 pronunciata dalla III sez. della Corte di Cassazione.

[6] Tra le altre, cfr. Cass. civ. sez. III, 18 ottobre 1994, n. 8470: <<Posto  che   in  materia   di  responsabilita'  per  danni  cagionati nell'esercizio  della professione  medica  va  applicato il  disposto dell'art. 2236  c.c., a  norma  del  quale il  sanitario risponde del danno  soltanto in caso di dolo o colpa grave, nell'ipotesi in cui la prestazione  implichi la  soluzione  di  problemi tecnici di speciale difficolta', mentre  quando  si  tratti di interventi che siano al di fuori dell'ipotesi  della  speciale difficolta' presupposta dall'art. 2236 c.c., occorre  riportarsi  alla  disciplina generale  prevista dall'art. 1176  per  l'esercizio  di un'attivita'  professionale,  la quale  importa l'obbligo  di  usare  la diligenza  del  buon padre di famiglia,   implicante una   scrupolosa  attenzione  ed una  adeguata preparazione professionale, venendo in tale ipotesi in considerazione la  colpa   lieve, da  presumere  sussistente  ogni volta  che  venga accertato  un  risultato peggiorativo  delle condizioni del paziente, diverse sono, nelle due ipotesi, le conseguenze sul piano probatorio, sia  per  quanto concerne  la  posizione  del paziente parte lesa, il quale dovra'  limitarsi  a  provare il  peggioramento  delle  proprie  condizioni perche' sussista la presunzione di colpa, o sobbarcarsi al maggior onere probatorio  in  caso  di intervento di speciale difficolta', sia  per quanto concerne la posizione  del sanitario, anch'egli  da porre  di  fronte  ad una alternativa opposta a seconda della sussistenza di una delle due ipotesi.>>.  Arcuti  c. Pascarelli, in Giust. civ. Mass., 1994, 1235 (s.m.).

E ancora Cass. civ. sez. III, 30 maggio 1996, n. 5005, Usl n.  11 Pordenone  c. Chiaranda e altro, in Giust. civ. Mass., 1996, 797; Cass. civ. sez. III, 11 aprile 1995, n. 4152, Bossi c. Marconi, in Giust. civ. Mass., 1995, 807.

[7] Cfr. Cass. civ. sez. III, 16 novembre 1993, n. 11287 Dettori c. Pistoro, in Giust. civ. Mass., 1993, fasc. 11, conforme a Tribunale Roma, 10 ottobre 1992 P.T. c. L.G.R., in Giur. it. 1993, I, 2, 337.

[8] A titolo esemplificativo si legga ancora Cass. civ. sez. III, 25 novembre 1994, n. 10014: <<Il   cliente   che,  avendo   subito   un  intervento  di   chirurgia riabilitativa,  o  anche di  chirurgia  estetica,  senza conseguire i  risultati sperati, intenda chiedere al professionista il risarcimento dei danni  sostenendo  che  l'obbligazione da questo contrattata era, nel caso  specifico,  di risultato o addebitando al professionista la violazione  del dovere  di informazione sulla natura dell'intervento, sulla  portata  ed estensione  dei  risultati  e sulle possibilita' e  probabilita' dei   risultati   conseguibili,  ha l'onere  di  provare l'inadempimento, che e' fatto costitutivo  del suo  diritto  al  risarcimento del  danno,  e,  percio', che  la prestazione dovuta dal  professionista era di risultato, e non solo di  mezzi, o che il professionista non ha adempiuto puntualmente all'obbligo di informazione>>.

Nella stessa sentenza, ad ulteriore chiarimento della materia, si legge anche che: <<Questa Corte ha avuto modo di chiarire, anche di recente, che "ai fini della ripartizione dell'onere della prova in materia di obbligazioni, si deve aver riguardo all'oggetto specifico della domanda, tal che', a differenza del caso in cui si chieda l'esecuzione del contratto e l'adempimento delle relative obbligazioni, ove e' sufficiente che l'attore provi il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, e cioe' l'esistenza del contratto e, quindi, dell'obbligo che si assume inadempiuto, nell'ipotesi in cui si domandi invece la risoluzione del contratto per l'inadempimento di una obbligazione l'attore e' tenuto a provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia l'inadempimento e le circostanze inerenti in funzione delle quali esso assume giuridiche rilevanza, spettando al convenuto l'onere probatorio di essere immune da colpa solo quando l'attore abbia provato il fatto costitutivo dell'inadempimento>> (da ultimo, Cass. 29.1.1993, n. 1119). Il problema non si pone diversamente allorche' l'inadempimento venga addotto non per conseguire la risoluzione del contratto, ma ai fini di ottenere il risarcimento del danno. L'obiettiva difficolta' in cui si trovi la parte di fornire la prova del fatto costitutivo del diritto vantato non puo' condurre ad una diversa ripartizione del relativo onere, che grava, comunque, su di essa (fra le altre, Cass., sent. n. 83/2596 del 1983), mentre l'antico brocardo, negativa non sunt probanda, e' da intendere nel senso che, non potendo essere provato cio' che non e', la prova dei fatti negativi deve essere fornita mediante la prova dei fatti positivi, ma non gia' nel senso che la negativita' dei fatti escluda od inverta l'onere (Cass., sent. n. 2612 del 1969). Esattamente, quindi, la Corte di Appello ha ritenuto che spettasse alla Sforza fornire la prova che la controparte non aveva adempiuto all'obbligo di informazione ovvero dell'oggetto del contratto, eventualmente estendendosi al conseguimento di un determinato risultato (dovendosi escludere che la Corte abbia ritenuto che, in astratto, l'obbligazione assunta dal chirurgo estetico sia sempre una obbligazione di risultato, anche se non ha omesso di valutarne l'attivita' sotto tale profilo). Sforza c. Milesi Olgiati, in Foro it., 1995, I, 2913 nota (SCODITTI), e in Nuova giur. civ. commen., 1995, I, 937 nota (FERRANDO).