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INDICE
GENERALE
PILLOLE
- Vitamina K2 previene epatocarcinoma
- Ultrasuoni in gravidanza: sono sicuri?
- Diabetici: un popolo alla ricerca della cura
ideale?
- Si curerà l'AIDS come la Rabbia?
- Alosetron efficace nella diarrea del colon
irritabile
- Uso di beta 2 stimolanti short acting e rischio di
morte negli asmatici
- La colongrafia mediante TC delude rispetto
alla colonscopia ottica
- I contraccettivi combinati portano ad un
aumento del peso corporeo?
- Inutili i defibrillatori impiantabili negli
infartuati?
- Quanto sono efficaci i FANS nella gonartrosi?
- Morte improvvisa
- Anche il naproxene può aumentare il rischio
cardiovascolare
- La nortriptilina può aiutare a smettere di
fumare.
- Peptide natriuretico e
rischio di eventi cardiovascolari e di morte
- Il piercing è associato a comportamenti a
rischio negli adolescenti americani
- Raloxifene riduce il rischio di cancro mammario
invasivo
- Deludenti i test fecali per la diagnosi del
cancro del colon
- Ostracismo a TOS: i ginecologi italiani non ci stanno
- Tegaserod efficace in stipsi da colon irritabile
- L’ipertensione
danneggia le funzioni cognitive, la terapia le preserva.
-
La
genetica dell’autismo
-
I disturbi dell' alimentazione: meglio i farmaci o la
psicoterapia?
- News prescrittive (dalla
Gazzetta Ufficiale): (a cura di Marco Venuti)
Lamisil,
Daskil, Terbitef - Fristamin,
Clarityn e Alorin -
APPROFONDIMENTI
- Buon sangue non mente (Generalita' sulle applicazioni della genetica in campo
forense)
MEDICINA LEGALE E
NORMATIVA SANITARIA
Di Daniele Zamperini per ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale
Università Cattolica.
- Cassazione: medici responsabili anche per "colpa lieve"
- Assenza alla visita di
controllo: i motivi devono essere "indifferibili" (Cassazione)
- IVA e prestazioni sanitarie: la parola definitiva
- Il medico e la
legge: cap. 10: Responsabilita'
Professionale e dovere d' informazione (Avv. Nicola Todeschini)
- Il medico e la legge: cap. 11: La colpa
lieve e la colpa grave (Avv.
Nicola Todeschini)
OLTRE LA
PROFESSIONE: OPINIONI E PENSIERI
- La natura alla ricerca di un equilibrio
(Di Massimiliano Fanni Canelles)
- LE NOVITA' DELLA LEGGE
(Di Marco Venuti): Gennaio- Febbraio 2005
Su www.medicoeleggi.it/pillole/freeconsult.htm
Marco Venuti mette a disposizione una serie di articoli su problemi connessi alla
prescrizione dei farmaci.
PILLOLE
A - Vitamina K2 previene
epatocarcinoma
La vitamina K2 (menaquinone) potrebbe essere un fattore protettivo
contro lepatocarcinoma nella epatopatia virale cronica
Secondo numerose ricerche la vitamina K2 potrebbe giocare un ruolo importante nel
controllo della crescita cellulare. Partendo da questo presupposto, alcuni scienziati
della Osaka City University hanno studiato gli effetti della vitamina K2 nello sviluppo
dellepatocarcinoma cellulare nelle donne con cirrosi virale. Lo studio ha coinvolto
quaranta donne con cirrosi epatica virale che erano state ricoverate in ospedale tra il
1996 e il 1998. Originariamente lo studio era stato disegnato per valutare il ruolo della
vitamina K2 nella perdita di massa ossea nelle donne con cirrosi virale.
Le pazienti sono state divise in due gruppi: uno è stato trattato con 45mg/die di
vitamina K2, l'altro con placebo. Al termine del periodo di follow up l'epatocarcinoma si
è sviluppato in due delle 21 donne che avevano ricevuto la vitamina K2 ed in 9 delle 19
trattate con placebo. Un'analisi multivariata aggiustata per età, transaminasi, albumina
sierica, bilirubina totale, conta piastrinica, alfa-fetoproteina e trattamento con
interferone alfa, ha indicato che il rischio di insorgenza di epatocarcinoma nelle donne
trattate con vit. K2 era 0.13 (95% CI, 0.02-0.99; P = .05) rispetto alle donne trattate
con placebo.
Fonte: JAMA 2004;292:358-361
Link: http://jama.ama-assn.org/cgi/content/abstract/292/3/358
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B - Ultrasuoni
in gravidanza: sono sicuri?
Ripetute ecografie durante la gravidanza non comportano ripercussioni a distanza
Gli esami ecografici sono diventati di routine nel monitoraggio della gravidanza, pur in
assenza di trials clinici randomizzati e controllati che abbiano valutato se l'esposizone
ripetuta agli ultrasuoni può influenzare lo sviluppo del neonato o provocare disturbi a
distanza.
In questo studio quasi 3000 donne gravide sono state randomizzate a ricevere 5 ecografie e
un doppler dell'arteria ombelicale fra la 18° e la 38° settimana di gestazione oppure
una singola ecografia alla 18° settimana. I bambini nati da queste pazienti sono stati
seguiti e visitati regolarmente fino agli 8 anni. Sono stati esclusi dalla analisi i
bambini nati con anomalie congenite oppure da gravidanze gemellari. Ad un anno il
follow-up ha riguardato l'85% dei bambini arruolati mentre a 8 anni la percentaule era
scesa al 75%.
All'età di un anno e anche in seguito l'accrescimento corporeo risultava simile tra i due
gruppi di bambini (quelli sottoposti al protocollo che prevedeva ecografie mutiple e
quelli sottoposti ad uno solo esame ecografico).
Non si sono registrate differenze neppure per quanto riguarda il linguaggio, la capacità
di esprimersi, il comportamento e lo sviluppo neurologico.
Gli autori concludono che l'esposizione del feto a ritetuti esami ultrasuonografici può
comportare un piccolo effetto sull'accrescimento fetale che però non ha ripercussioni
sugli outcomes a distanza.
Fonte: Newnham JP et al. Effects of repeated prenatal ultrasound examinations on childhood
outcome up to 8 years of age: follow-up of a randomised controlled trial . Lancet 2004 Dec
4; 364: 2038-44
Commento
La prassi ormai consolidata die seguire almeno tre ecografie durante la gestazione poteva,
teoricamente, far nascere qualche dubbio sulla reale sicurezza di questi protocolli di
monitoraggio della gravidanza. Questo studio fornisce dati tranquillizzanti: le donne
possono essere rassicurate che l'ecografia è un esame innocuo e che può essere ripetuto
più volte senza che il bambino corra pericoli immediati o abbia ripercussioni future.
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C Diabetici: un
popolo alla ricerca della cura ideale?
E' noto che i pazienti diabetici hanno una frequenza molto elevata di complicanze
vascolari di tipo cardiaco, neurologico e periferico.
Questo studio si proponeva di valutare il trattamento di una coorte di oltre 12.000
soggetti affetti da diabete tipo 2.
L'età media degli arruolti era di 64 anni, circa per il 45% erano donne e il follow-up è
durato 5 anni.
Purtroppo i risultati non sono entusiasmanti: meno di un quarto dei pazienti era trattato
con asa (o con un altro antiaggregante) o con statine e poco meno della metà riceveva un
aceinibitore. Nei soggetti riconosciuti affetti da malattia coronarica la percentuale
aumentava, ma di poco (il 37% riceveva aspirina, il 29% una statina e il 60% un
aceinibitore) per cui anche in questo caso non si può dire che il trattamento fosse
ideale. Addirittura gli autori hanno dimostrato che i pazienti che erano stati sottoposti
ad una qualche forma di amputazione agli arti inferiori per una grave arteriopatia
periferica non avevano più probabilità di essere trattati con antiaggreganti o statine
di quelli non amputati.
Fonte: Brown LC et al. Evidence of suboptimal management of cardiovascular risk in
patients with type 2 diabetes mellitus and symptomatic atherosclerosis
CMAJ 2004 Nov 9; 171:1189-1192
Commento:
Già lo storico studio UKPDS aveva dimostrato che i diabetici ottengono più beneficio dal
trattamento aggressivo dell'ipertensione che della glicemia.
Tutta la comunità scientifica ha ormai riconosciuto che nel diabete l'equilibrio
glicemico è importante ma da solo non basta a scongiurare le temibili complicanze
cardiovascolari della malattia. I diabetici vanno considerati soggetti a rischio
cardiovascolare molto elevato, praticamente paragonabili a degli infartuati, e, nella
maggior parte dei casi, vanno trattati aggressivamente con farmaci che hanno dimostrato
efficacia in questo senso, come le statine, l'aspirina e gli aceinibitori. Purtroppo come
in molti altri campi della medicina, si assite ad un gap di trasferimento di conoscenze
nella pratica di tutti i giorni e questo pone dei grossi punti interrogativi sulla
efficacia delle moltissime linee guida nel cambiare i comportanti prescrittivi dei medici
e nell'adeguarli alle nuove conoscenze.
Rimane da stabilire quanto di questi dati, riferiti alla realtà canadese, siano attuali
in Italia.
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D Si curerà
l'AIDS come la Rabbia?
Mediante trattamento vaccinale capace di inattivare il virus stimolando il sistema
immunitario come nella rabbia, dopo due mesi la concentrazione dell'Hiv si è ridotta
dell'80% e nel 44% dei casi, i livelli virali si sono mantenuti per oltre un anno del 90%
piu' bassi di quelli basali.
La scoperta è del Prof. Jean Marie Andrieu, direttore del servizio di oncologia medica
dellospedale europeo Georges Pompidou e del Dr Wei Lu, dorigine cinese,
dellIRD, Istituto di ricerca per lo sviluppo, entrambi già famosi per aver messo a
punto nel 1999 il Muprovoma, un test molecolare di dépistage che permette di identificare
la quasi totalità dei sottotipi conosciuti dellAIDS (contro il 10-20% degli altri
test che ignoravano fino ad allora la gran parte dei sottotipi di origine africana o
asiatica).
Al contrario dei vaccini preventivi, destinati ad impedire lingresso di agenti
patogeni nellorganismo sano, il principio di un vaccino terapeutico consiste nel
rallentare, od interrompere definitivamente la progressione dell'infezione o delle sue
conseguenze.
Le piste di ricerca scelte dallequipe del Prof. Andireu e dal Dr Wei Lu consistono
non nel far sparire il virus, ma nell'impedirgli di moltiplicarsi grazie ad un meccanismo
vaccinale già usato per guarire dalla rabbia. Al fine di stimolare le difese immunitarie,
i due ricercatori hanno pensato di lavorare sulle cellule dendritiche. Situate
principalmente nei linfonodi, nella milza e, in minor misura, nel sangue le cellule
dendritiche sono le "sentinelle" incaricate di scoprire la presenza di
"intrusi" nellorganismo che indicano successivamente ai linfociti qual è
il nemico da eliminare. Ma come evitare che i linfociti siano, a loro volta, infettati
come nel caso dellAIDS? Facendo in modo che le cellule dendritiche insegnino
preventivamente al linfocita a proteggersi dagli antigeni presenti sullinvolcro
dellHIV.
Nel 2002, il Dr Wei Lu prelevò del sangue di macachi, infettati dal SIV (lAIDS
delle scimmie), cellule dendritiche che mise a contatto con virus inattivato con metodi
chimici. Il virus invase le cellule dendritiche, ma non fu in grado di riprodursi.
In collaborazione con l'Universidade Federal de Pernambuco (Recife), sono stati prelevati
campioni di virus Hiv ed alcune cellule dendritiche da 18 pazienti sieropositivi, i cui
livelli di virus nel sangue si erano mantenuti costanti nei precedenti sei mesi. Il
vaccino e' stato preparato riempendo le cellule dendritiche di virus Hiv, inattivato.
Quindi, le cellule sono state reinfuse a ciascun paziente. Dopo due mesi la concentrazione
dell'Hiv si è ridotta dell'80% e nel 44% dei casi i livelli virali si sono mantenuti per
oltre un anno del 90% più bassi di quelli iniziali La scoperta sarebbe in procinto di
essere pubblicata su Nature.
Fonte: Valeurs Actuelles, 3547 - 19/11/04
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E - Alosetron
efficace nella diarrea del colon irritabile
La terapia protratta a lungo con alosetron, un antagonista dei recettori
serotoninergici, è efficace e sicuro nel trattamento della diarrea nelle donne con
sindrome da colon irritabile.
Lo studio controllato, in doppio cieco contro placebo, è stato condotto per 48 settimane
su circa 700 donne USA. Lefficacia è stata valutata in termini di sollievo
soggettivo dal dolore/fastidio intestinale e dallurgenza del tenesmo, nonché con
misure oggettive quali la frequenza e la consistenza delle evacuazioni. Nel gruppo
trattato con alosetron sono stati ottenuti miglioramenti sintomatologici
significativamente superiori rispetto a quanto osservato nel gruppo placebo per tutti i
parametri valutati. Lefficacia è risultata ancora migliore nel sottogruppo di
pazienti che allarruolamento presentavano episodi di tenesmo urgente in almeno 10
giorni su 14. Il profilo di tollerabilità del gruppo attivo è risultato simile a quello
osservato nel gruppo placebo.
Fonte: Am J Gastroenterol. 2004;99:2195-203.
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F -
Uso di
beta 2 stimolanti short acting e rischio di morte negli asmatici
L'utilizzo di beta 2 agonisti a breve durata d'azione è associato con una più
elevata mortalità nei pazienti asmatici.
Uno studio caso-controllo ha confrontato 532 soggetti deceduti per asma con 532 pazienti
ricoverati per crisi asmatica e paragonabili per età , area geografica e periodo
temporale della morte e del ricovero.
Dopo aggiustamento per vari fattori di confondimento gli autori hanno osservato che vi era
una associazione positiva tra la prescrizione di beta 2 stimolanti a breve durata d'azione
nel periodo che andava da 1 a 5 anni prima e il decesso (OR 2.05 con intervallo di
confidenza al 95% di 1.26-3.33) mentre vi era una associazione inversa con la prescrizione
di antibiotici e di steroidi orali. L'associazione tra uso di beta 2 stimolanti e aumento
del rischio di morte sembra limitata ai soggetti di età compresa tra 45 e 64 anni. Lo
studio ha permesso di osservare anche una associazione inversa per l'uso dei beta 2
agonisti a lunga durata d'azione e positiva per i teofillinici, entrambe però
statisticamente non significative.
Fonte:
Anderson HR et al. Bronchodilator treatment and deaths from asthma: case-control study
BMJ 2005 Jan 15; 330:117
Commento di Renato Rossi
Già studi precedenti avevano prospettato l'ipotesi che l'uso di beta 2 stimolanti a breve
durata d'azione potesse essere pericoloso nei pazienti asmatici. Tuttavia i dati erano di
difficile interpretazione anche perchè gli studi avevano una potenza statistica limitata
ed erano di tipo osservazionale.
In questo studio caso-controllo viene confermata l'associazione positiva tra uso di beta 2
a breve durata d'azione e aumentato rischio di morte mentre non ci sono evidenze negative
per i beta 2 a lunga durata d'azione e gli steroidi.
Tuttavia, essendo anche questo uno studio ossservazionale, è difficile dire se questo
significhi un nesso causale diretto tra decesso e beta 2 short acting o non si tratti
piuttosto di un semplice indicatore (i soggetti con forme più gravi di asma, e quindi
più a rischio di morte, usano di più i beta 2 stimolanti a breve durata d'azione).
In ogni caso questi risultati confermano, se ce ne fosse ancora bisogno, che i farmaci di
prima scelta nell'asmatico sono gli steroidi inalatori con i beta 2 long-acting come
farmaci importanti da associare quando necessario nel trattamento long-term, mentre i beta
2 short acting vanno riservati ad un uso saltuario al bisogno.
Commento di Luca Puccetti
L'utilizzo di beta 2 agonisti è spesso assai frequente soprattutto nei pazienti di basso
livello culturale e di basso ceto economico. Pertanto più che una causa l'utilizzo di
beta 2 short acting potrebbe essere una connotazione di una certa tipologia di pazienti.
Inoltre proprio chi utilizza molti beta 2 a breve durata spesso non riceve una terapia
adeguata e utilizza questi farmaci anche come automedicazione.
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G -
La
colongrafia mediante TC delude rispetto alla colonscopia ottica
Questo studio di riprometteva di valutare quale fosse la sensibiltà di
clisma opaco, colonscopia virtuale e colonscopia ottica nel diagnosticare i polipi o le
neoplasie del colon. A tal scopo sono stati reclutati 614 pazienti che avevano un test al
sangue occulto fecale positivo, oppure anemia sideropenica o storia familiare
positiva di cancro del colon.
I pazienti furono sottoposti a clismaopaco, colonscopia virtuale e colonscopia ottica.
La sensibilità delle tre metodiche nell'evidenziare lesioni di 10 mm o più di diametro
era del 48% per il clismaopaco, del 59% per la colonscopia virtuale e del 98% per la
colonscopia ottica. Per le lesioni di 6-9 mm la sensibilità era rispettivamente del 35%,
51% e 99%. Gli autori concludono che la colonscopia ottica è di gran lunga più sensibile
delle altre metodiche per svelare le lesioni neoplastiche e i polipi del colon.
Fonte:
Rockney DC et al. Analysis of air contrast barium enema, computed tomographic
colonography, and colonoscopy: prospective comparison. Lancet, Published online December
17, 2004
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H -
I
contraccettivi combinati portano ad un aumento del peso corporeo?
Le evidenze disponibili non suffragano la credenza comune che i contraccettivi provochino
un aumento di peso.
E' opinione diffusa tra le donne (e forse anche tra qualche medico) che la pillola
contraccettiva faccia ingrassare.
Per rispondere alla questione è stata effettuata una analisi di trials clinici
randomizzati e controllati in cui venivano usati contraccettivi estro-progesticini
combinati. Per essere inclusi nell'analisi gli studi dovevano essere di buona qualità
metodologica e prevedere l'utilizzo del contraccettivo combinato per almeno tre mesi. In
realtà la qualità metodologica degli studi ritrovati (42 RCT) era generalmente modesta e
la valutazione del cambiamento del peso corporeo era un end-point primario preso in
considerazione da un solo lavoro mentre negli altri studi doveva essere calcolato.
Comunque gli autori non hanno trovato alcuna dimostrazione che i contraccettivi portino ad
un aumento del peso corporeo. Inoltre meno del 5% delle donne che avevano smesso il
contraccettivo riferivano di averlo fatto perchè avevano riscontrato un aumento
ponderale. Gli autori fanno notare però che questi risultati derivano dalla analisi di
studi vecchi di decenni quando venivano usate dosi molto più alte di estrogeni.
Fonte: Gallo MF, et al. Combination estrogen-progestin contraceptives and body weight:
systematic review of randomized controlled trials. Obstet Gynecol 2004;103:359-73.
Commento di Renato Rossi
Questo studio permette di poter rassicurare le donne preoccupate circa un possibile
aumento di peso legato alla assunzione della pillola contraccettiva. E' perlomeno strano
che ci dobbiamo basare su informazioni derivanti da studi molto vecchi. Tuttavia il fatto
che oggi si usino dosaggi di gran lunga inferiori rende ancora meno probabile che l'uso
dei contraccettivi abbia un qualche impatto sul peso delle pazienti.
Qualora una donna dovesse ingrassare durante trattamento con estro-progestinici la causa
andrà quindi ricercata da altre parti (riduzione dell'attività fisica, aumento
dell'introito calorico, ipotiroidismo, ecc.)
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I - Inutili i
defibrillatori impiantabili negli infartuati?
Secondo uno studio l'uso routinario dei defibrillatori impiantabili
nel post-infarto sarebbe sconsigliato in quanto riducono le morti aritmiche ma non la
mortalità totale. Ma altri studi forniscono risultati diversi.
E' noto che i pazienti con pregresso infarto miocardico sono ad aumentato rischio di morte
aritmica, specialmente nei mesi successivi all'evento. I soggetti più a rischio sono
quelli con aritmie ventricolari minacciose, ridotta frazione di eiezione o alterazioni
della frequenza cardiaca .
Nello studio DINAMIT, uno studio randomizzato in aperto, sono stati arruolati quasi 700
pazienti che avevano avuto un infarto miocardico da 6 a 40 giorni prima. Tutti i pazienti
avevano una frazione di eiezione =< 35% e una ridotta variabilità della frequenza
cardiaca o una frequenza media elevata registrata tramite elettrocardiografia dinamica. I
pazienti sono stati suddivisi in due gruppi, a uno dei quali venne impiantato un
defibrillatore.
Durante un followup medio di due anno e mezzo non ci furono differenze per quanto riguarda
la mortalità totale tra i due gruppi, anche se nel gruppo con il defibrillatore le morti
aritmiche erano ridotte in maniera statisticamente significativa.
Fonte:
Hohnloser SH et al for the DINAMIT Investigators. Prophylactic Use of an Implantable
Cardioverter-Defibrillator after Acute Myocardial Infarction N Engl J Med 2004 Dec 9;
351:2481-2488
Commento di Renato Rossi
Da questo studio sembra quindi che l'impianto routinario di un defibrillatore nel periodo
immediatamente successivo all'infarto miocardico non sia utile, neppure nei pazienti ad
alto rischio di aritmie minacciose, a ridurre la mortalità totale in quanto, sebbene si
riducano le morti aritmiche, si ha un aumento della mortalità da altre cause, così che
il beneficio viene annullato. Da questo punto di vista si sono dimostrati più efficaci
gli acidi omega 3 che nello studio Gissi-prevenzione (GISSI-Prevenzione
Investigators. Lancet 1999 Aug 7; 354:447-455) hanno ridotto non solo le morti aritmiche
ma anche la mortalità totale, per quanto il risultato diverso potrebbe essere dovuto alla
diversa consistenza del campione arruolato (più di 11.000 pazienti nello studio italiano,
meno di 700 in questo studio sui defibrillatori).
I cosidetti ICD (implantable cardioverter defibrillator) originariamente erano stati
pensati per i soggetti sopravvissuti ad un episodio di arresto cardiaco o di fibrillazione
ventricolare. In questi pazienti gli studi mostrano un NNT da 9 a 24 (Connolly SJ et al.
Meta-analysis of the Implantable Cardioverter Defibrillator Secondary Prevention Trials.
AVID, CASH and CIDS Studies. Antiarrhythmics Vs Implantable Defibrillator Study. Cardiac
Arrest Study Hamburg. Canadian Implantable Defibrillator Study. Eur Heart J 2000;
21(24):2071-8).
Poi si è cominciato a metterli anche in prevenzione primaria in pazienti ritenuti a
rischio di morte improvvisa, come per esempio quelli con cardiopatia ischemica e FE <
30% , con un NNT circa 9 (Studio MADIT II. Moss AJ et al. Prophylactic implantation of a
defibrillator in patients with myocardial infarction and reduced ejection fraction. N Engl
J Med 2002; 346:877-83).
E' sempre difficile fare paragoni tra i pazienti di due studi diversi e quindi spiegare i
risultati diversi ottenuti dagli studi DINAMIT e MADIT II. Sicuramente si può dire che
mentre nel MADIT II la mortalità totale passava dal 19,8% del gruppo controllo al 14,2%
del gruppo ICD, nel DINAMIT la mortalità totale era addirittura più elevata (anche se
non statisticamente significativa) nel gruppo con ICD (18,6% vs 17%).
Ha sicuramente ragione l'editorialista che commentando lo studio DINAMIT sostiene che per
ora l'ICD non può essere impiegato routinariamente in tutti gli infartuati con grave
riduzione della FE e che è necessario individualizzare la scelta sulla base del rischio
di morte aritmica e di decesso da altre cause.
Altri pazienti in cui viene proposto l'ICD sono quelli con condizioni eridatarie come la
cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro o la sindrome di Brugada, o ancora la
cardiomiopatia ipertrofica e la sindrome del QT corto/lungo.
Una meta-analisi sui trials di prevenzione primaria e secondaria (Lee DS et al.
Effectiveness of implantable defibrillators for preventing arrhythmic events and death: a
meta-analysis. J Am Coll Cardiol. 2003 May 7;41:1573-82) conclude che nella prevenzione
secondaria il beneficio sulla mortalità totale è evidente, nella prevenzione primaria
sembra che il beneficio dipenda dalla selezione dei pazienti a rischio.
Una meta-analisi sulla utilità degli ICD nella cardiomiopatia non ischemica conclude
nello stesso modo: i defibrillatori sono superiori alla terapia medica in pazienti
selezionati (Desai AS et al. Implantable Defibrillators for the Prevention of Mortality in
Patients With Nonischemic Cardiomyopathy . A Meta-analysis of Randomized Controlled
Trials. JAMA 2004 Dec 15; 292:2874-2879 ).
Le meta-analisi non tengono conto del recente Sudden Cardiac Death in Heart Failure Trial
(SCD-HeFT), non ancora pubblicato ma i cui risultati sono stati presentati a marzo 2004
all' American College of Cardiology's Annual Scientific Session .
Si tratta dello studio con casistica più numerosa avendo arruolato oltre 2500 pazienti
con scompenso da qualsiasi causa e FE =< 35%. I pazienti arruolati sono stati
randomizzati in tre gruppi: ICD, amiodarone o placebo, con follow-up medio di 2-6 anni. La
mortalità totale, al 5° anno, era del 28,9% per l'ICD, del 34,1% per amiodarone e del
35,8% per il placebo (nessuna differenza tra amiodarone e placebo).
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L - Quanto sono
efficaci i FANS nella gonartrosi?
I FANS nella gonartrosi possono ridurre il dolore nel breve periodo ma la loro efficacia
è scarsa a lungo termine.
I FANS vengono usati nel trattamento sintomatico della gonartrosi. Quanto sono efficaci?
Una meta-analisi si è proposta di rispondere alla domanda esaminando gli studi in cui i
FANS (compresi i cosidetti coxib) sono stati paragonati al placebo. La ricerca ha permesso
di ritrovare 23 studi per un totale di quasi 11.000 pazienti (età media 62 anni). Gli
autori riferiscono che la qualità degli studi è accettabile anche se alcuni studi
avevano scelto dei criteri di selezione dei pazienti perlomeno discutibili, non includendo
coloro che si sapevano essere non responsivi ai FANS. Purtroppo solo uno studio riporta
dati sulla efficacia analgesica dell'antinfiammatorio a lungo termine (da uno a quattro
anni) e l'effetto è negativo: nessun beneficio rispetto al placebo. Negli studi in cui
l'efficacia analgesica dei FANS è stata valutata nell'arco di 2-13 settimane, i FANS
hanno dimostrato invece di ridurre l'intensità del dolore rispetto al placebo, anche se
l'effetto era meno evidente negli RCT in cui erano stati arruolati anche pazienti che si
sapeva essere poco sensibili ai FANS.
Tuttavia l'effetto antalgico non è molto pronunciato: valutato secondo una scala visuale
la riduzione del dolore era mediamente del 15%, quindi clinicamente modesta.
Fonte: Bjordal JM et al. Non-steroidal anti-inflammatory drugs, including
cyclo-oxygenase-2 inhibitors, in osteoarthritic knee pain: meta-analysis of randomised
placebo controlled trials BMJ 2004 Dec 4; 329:1317
Commento
Nell'artrosi le linee guida consigliano il paracetamolo (a dosaggi adeguati di 3-4 grammi)
come farmaco di prima scelta e in seconda istanza un antinfiammatorio non steroideo.
Tuttavia recenti studi hanno avanzato dubbi sulla reale utilità del paracetamolo. Questa
meta-analisi (che ha considerato anche i coxib) suggerisce che nella gonartrosi i FANS
possono avere un ruolo nel diminuire il dolore nel breve periodo ma la loro efficacia a
lungo termine non sembra superiore a quella del placebo. Di contro bisogna considerare gli
effetti collaterali che, specialmente negli anziani, sono frequenti e gravi (dalla
tossicità gastrica all'effetto negativo sulla funzione renale e cardiaca).
In effetti è esperienza comune che i pazienti, pur assumendo FANS per lunghi periodi, in
realtà spesso richiedono un cambiamento della molecola nella speranza (di solito
malriposta) di trovare una soluzione ai loro problemi. Anche altre terapie (dalla
infiltrazione di sterodi o di acido jaluronico all'agopuntura alle varie metodiche
fisioterapiche) ottengono risultati variabili, mentre nei casi gravi e intrattabili non
rimane che ricorrere alla chirurgia protesica.
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M - Morte
improvvisa
La morte improvvisa nei giovani adulti è spesso dovuta a patologie cardiache ma
in un terzo dei casi il motivo rimane indeterminato
In uno studio retrospettivo di coorte effettuato su militari d'ambo i sessi statunitensi
esaminando il registro dei decessi del Dipartimento della Difesa sono state controllate le
cause di morte non dovute a eventi traumatici in soggetti di età compresa tra i 18 e i 35
anni.
La frequenza di morte non traumatica in questa fascia d'età è molto bassa (13 su
100.000/arruolati/anno). Nella maggior parte dei casi (86%) il decesso è associato
all'esercizio fisico. La causa più comune (51% dei decessi) è una anomalia cardiaca,
tuttavia in una percentuale elevata (36% dei casi) il motivo della morte rimane
inspiegato.
Le anomalie cardiache più frequentemente riscontrate sono: alterazioni coronariche (61%),
miocarditi (20%), cardiomiopatia ipertrofica (13%). Gli autori notano che i soggetti
arruolati erano stati sottoposti ad uno screening pre-arruolamento comprendente una
dettagliata anamnesi e un esame clinico, per cui nella popolazione generale i dati
potrebbero essere diversi.
Fonte:
Eckart RE et al. Sudden Death in Young Adults: A 25-Year Review of Autopsies in Military
Recruits -Ann Intern Med 2004 Dec 7; 141:829-834
Commento di Renato Rossi
La morte improvvisa nei giovani adulti è, per fortuna, evenienza rara, ma sicuramente
traumatizzante. Comprenderne la cause potrebbe portare a una possibile prevenzione? Lo
studio americano conferma il sospetto che la maggior parte delle morti improvvise nei
giovani è in qualche modo legata alla attività fisica e che spesso vi è una
sottostante, misconosciuta, patologia cardiaca, anche se la cause del decesso rimangono
ignote in un caso su tre.
Non sappiamo se uno screening comprendente, oltre all'anamnesi e alla visita, accertamenti
strumentali (ecocardiogramma, elettrocardiogramma dinamico/24 ore e da sforzo), sia non in
grado di individuare i soggetti a
rischio e di ridurre una eventualità che resta rara, anche perchè non si saprebbe quali
criteri di selezione adottare (soggetti che si debbono sottoporre a esercizio fisico? di
quale livello?) essendo impensabile uno screening di questio tipo esteso a tutti. Ricordo
che per la pratica della attività sportiva agonistica in Italia è prevista
certificazione appositamente rilasciata da un medico specialista in Medicina dello Sport.
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N - Anche il naproxene può aumentare il
rischio cardiovascolare
Dopo la tempesta che ha colpito la classe dei coxib sembra che anche il
naproxene manifesti gli stessi problemi cardiovascolari.
Si tratta di un effetto classe di tutti i FANS?
Un trial che valutava la capacità dei farmaci antinfiammatori non steroidei di ridurre il
rischio di morbo di Azheimer (sponsorizzato dai National Institutes of Health americani)
è stato interrotto anticipatamente. Nello studio, che doveva durare tre anni, erano stati
arruolati circa 2500 pazienti randomizzati a placebo, naproxene o celecoxib. Lo studio è
stato interrotto a causa delle notizie recenti sul celecoxib. Tuttavia l'analisi ad
interim dei dati ha mostrato che era il naproxene ad essere associato ad un aumento del
rischio di eventi cardiovascolari del 50% rispetto al placebo, mentre tale problema non
risultava per il celecoxib.
La FDA ha avvertito i pazienti di non assumere per periodi superiori ai 10 giorni prodotti
da banco contenenti naproxene senza aver preventivamente consultato un medico.Fonte:
http://www.medscape.com/viewarticle/496403
Commento di Renato Rossi
Dopo il ritiro del rofecoxib e i recenti allarmi su celecoxib e valdecoxib sembra che
anche un altro FANS, questa volta non cox-selettivo, mostri problemi di tossicità
cardiovascolare. La cosa è abbastanza sorprendente se si pensa che il naproxene è in
commercio da decenni ed è considerato un FANS sicuro dal punto di vista cardiovascolare.
Quando nello studio VIGOR si evidenziò un aumento degli infarti nel gruppo trattato con
rofecoxib rispetto al naproxene, si cercò di spiegare la cosa con un supposto effetto
cardioprotettivo di quest'ultimo.
I risultati di quest'ultimo studio sono sorprendenti anche perchè non sembra ci siano
stati problemi per l'altro farmaco testato, il celecoxib.
Gli studiosi paiono presi in contropiede e qualcuno si è chiesto se in realtà non sia
tutta la classe dei FANS (selettivi e non selettivi) ad avere un effetto protrombotico.
Dobbiamo ammettere che, nonostante molti di questi farmaci siano usati da decenni, ancora
non ne conosciamo il profilo di sicurezza cardiovascolare?
Commento Di Luca Puccetti
I risultati contraddittori di vari trials destano sconcerto. Già in un precedente
commento avevamo evidenziato che in realtà analizzando medline nonsono emersi, prima dei
coxib, studi di lunga durata sui FANS. Questo è dovuto al fatto che quando i FANS sono
stati registrati i trials regsitrativi avevano altre modalità di conduzione e si
richiedevano prove di tollerabilità solo nel breve-medio termine. Una volta registrati i
FANS non erano più oggetto di interesse da parte dei produttori e gli studi erano in
massima parte tesi ad evidenziare vantaggi competitivi marginali. In Italia, fatto salvo
per i casi artrite e per le gravissime coxartrosi o gonartrosi è molto raro trattare per
un tempo prolungato i pazienti per sintomi osteoarticolari. Questa abitudine è invece
molto più diffusa nei paesi anglosassoni dove spesso si usano dosi molto superiori a
quelle mediamente impiegate in Italia. I nuovi coxib hanno scoperchiato la pentola. Per la
loro supposta tollerabilità si è pensato che questi farmaci avrebbero potuto essere
somministrati per terapie protratte. Sono stati dunque realizzati trials di lunga durata
anche su modelli diversi da quelli dei pazienti artritici ed artrosici. Non è un caso
infatti che la maggior parte degli allarmi provenga da studi sulla prevenzione della
degenerazione della poliposi intestinale o dell'Alzheimer che hanno durate molto
protratte. I risultati di questo studio sembrerebbero scompaginare anche l'ipotesi dello
sbilanciamento protrombogeno svolto dai coxib per l'azione inibitoria sulla prostaciclina
senza al contempo inibire il trombossano. Si era sostenuto che i FANS, per la loro non
selettività sugli isoenzimi COX, agissero su tutte e due le catene metaboliche dando
luogo ad una sorta di risultante nulla. Adesso questa teoria sembra messa in discussione
dai risultati di questo studio in cui è il celecoxib che pare non dare problemi. A questi
risultati si contrappongono quelli dello studio sulla prevenzione del cancro del colon
nella adenomatosi che invece mostrano un aumento del rischio di eventi cardiovascolari
proprio nei pazienti trattati con celecoxib rispetto al gruppo placebo. Tutto ciò mi
suggerisce una notazione di metodo. Forse sarà bene che tutti noi ci ricordiamo sempre
l'insegnamento di Geoffrey Rose: i risultati degli studi epidemiologici emergono tra
gruppi di malati e si applicano solo al livello di gruppo di quei malati (e non di altri).
Insomma è forte la solita tentazione di voler inquadrare i malati reali in qualcuno di
questi gruppi con la speranza, da parte del buon medico, di trarne i risultati migliori in
termini di efficacia e tollerabilità a vantaggio del proprio paziente che somiglia tanto
a qualcuno di quei gruppi..... , ma di quale studio?
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O - La
nortriptilina può aiutare a smettere di fumare.
Un vecchio antidepressivo, la nortriptilina, può aiutare i pazienti che desiderano
smettere di fumare.
Lo dimostra uno studio randomizzato e controllato su 160 fumatori (> 10 sigarette al
giorno). I pazienti vennero suddivisi in quattro gruppi. Ad ogni gruppo veniva prescritta
nicotina transdermica per 8 settimane; inoltre tutti i pazienti furono sottoposti a un
ciclo di 5 sessioni di counseling di gruppo. Nello stesso tempo i gruppi ricevettero
nortriptilina oppure placebo per 12 settimane. Successivamente i soggetti che erano stati
randomizzati ad avere un trattamento prolungato continuarono la nortiptilina e il
counseling per altre 40 settimane. Alla fine delle 52 settimane la percentuale di pazienti
in astinenza era di: 30% per il gruppo placebo con trattamento breve, 42% per il gruppo
placebo in trattamento prolungato, 18% per il gruppo nortriptilina in trattamento breve e
50% per il gruppo nortriptilina in trattamento prolungato. I pazienti persi al controllo
sono stati considerati come pazienti ancora fumatori.
Gli effetti avversi riportati con il farmaco, inclusi disturbi della sfera sessuale, si
sono verificati, soprattutto nel primo periodo di assunzione, nel 20% dei pazienti in
trattamento attivo.
Fonte: Sharon M. Hall SM et al. Extended Nortriptyline and Psychological
Treatment for Cigarette Smoking -
Am J Psychiatry 2004 Nov; 161: 2100-2107
Commento
E' ormai nozione comune che il fumo costituisce uno dei principali fattori di rischio per
le malattie cardiovascolari e che smettere di fumare è molto difficile, anche per
pazienti motivati. Gli interventi finora proposti si sprecano (dal counseling alla
psicoterapia all'agopuntura) e anche il trattamento farmacologico (nicotina, bupropione)
ottiene risultati incoraggianti nel breve periodo ma a distanza di un anno la percentuale
di soggetti che non fuma si aggira sul 35% circa.
Se i risultati di questo studio, che confermano quelli di uno studio precedente (Prochazka
AV et al. A Randomized Trial of Nortriptyline Combined With Transdermal Nicotine for
Smoking Cessation. Arch Intern Med. 2004 Nov 8; 164:2229-2233) saranno convalidati da
studi più ampi la nortriptilina, un vecchio antidepressivo triciclico molto economico,
potrebbe diventare una terapia accessibile a molti. Vi è da notare comunque che nel
gruppo che ha ottenuto i migliori risultati la nortriptilina è stata associata alla
nicotina transdermica per le prime 8 settimane e al counseling di gruppo per tutta la
durata dello studio. Probabilmente una percentuale di astensione del 50% non sarebbe stata
possibile senza il supporto psicologico del counseling, che rimane la strategia più
difficile e complessa da mettere in pratica.
E' da notare anche il buon risultato ottenuto dal placebo somministrato per un anno, il
che indica che i fattori psicologici rivestono la maggior importanza nell'ottenere la
cessazione del fumo.
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P - Peptide natriuretico e rischio di eventi cardiovascolari e di morte
I peptici natriuretici sono
ormoni controregolatori , coinvolti nellomeostasi del volume e nel rimodellamento
cardiovascolare.Gli Autori hanno condotto uno studio
prospettico allo scopo di determinare la relazione tra i livelli plasmatici di un peptide natriuretico di tipo B ( BNP ) e
di un peptide natriuretico pro-atriale N-terminale ( NT-proANP ) , e rischio di morte per
cause generali , eventi cardiovascolari maggiori, insufficienza cardiaca , fibrillazione atriale, ictus o attacco ischemico
transitorio ( TIA ) e malattia coronarica.Hanno partecipato
allo studio 3346 persone senza insufficienza cardiaca.Il
periodo medio di osservazione è stato di 5.2 anni.
Nel corso del follow-up ci sono stati 119 decessi e 79
soggetti sono andati incontro ad un primo evento cardiovascolare.Dopo
adattamento per i fattori di rischio cardiovascolare, ogni incremento di 1 deviazione
standard in log dei livelli del peptide natriuretico
di tipo B è risultato associato ad un aumento del 27% del
rischio di morte ( p=0.009 ) , del 28% del rischio di un primo
evento cardiovascolare ( p=0.03 ) , del 77% del rischio di
insufficienza cardiaca ( p<0.001 ), del 66% del rischio di fibrillazione atriale ( p<0.001 ), e del 53% del rischio di ictus o TIA ( p=0.002 ).
I livelli del peptide non presentavano una significativa
relazione con gli eventi coronarici.
I valori di peptide natriuretico
di tipo B sopra l80° percentile sono stati associati
con un hazard ratio ( HR ) di 1.62 per la mortalità (p=0.02), di 1.76 per il primo evento cardiovascolare maggiore (p=0.03) , di 1.91 per la fibrillazione
striale ( p=0,02 ), di 1.99 per lictus o TIA ( p=0.02 )
, e di 3.07 per linsufficienza cardiaca ( p=0.002 ).
Risultati simili sono stati ottenuti per il peptide natriuretico pro-atriale N-terminale.
In questo studio, i livelli plasmatici di peptide natriuretico sono stati in grado di predire il rischio di morte e di eventi cardiovascolari.
N Engl J Med 2004; 350:655-663
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Q - Il piercing
è associato a comportamenti a rischio negli adolescenti americani
Sottoporsi al piercing è una pratica molto frequente oggi nei giovani e negli
adolescenti.
Complicanze legate al piercing vengono riportate in circa un caso ogni sei.
Le più comuni sono le infezioni batteriche, il sanguinamento e i traumatismi locali
cutanei o mucosi.Uno studio si è proposto di esaminare se gli adolescenti (età 13-18
anni) che si sottopongono a questa pratica manifestino problemi del comportamento in
misura maggiore rispetto ai coetanei che non portano il piercing.
Analizzando le risposte date ad un questionario da oltre 4.300 adolescenti, gli autori
dello studio riferiscono una frequenza del piercing (in sedi diverse dal padiglione
auricolare) del 4% in generale (7,1% nelle ragazze e 1,5% nei ragazzi). Sembra non ci
siano differenze per quanto riguarda l'etnia, la zona di residenza e i fattori familiari.
Vi è invece una associazione forte tra il piercing e i comportamenti o le abitudini
ritenute a rischio. Per esempio i rapporti sessuali precoci sono più frequenti tra gli
adolescenti col piercing rispetto ai controlli (due su tre contro uno su tre circa), il
fumo (sei su dieci contro tre su dieci), l'uso di marijuana, l'abbandono della famiglia,
le assenze ingiustificate da scuola, le idee suicidiarie (26% vs 13%) e i tentativi di
suicidio.
Fonte: TA Roberts et al. Body piercing and high-risk behaviour in adolescents. Journal of
Adolescent Health 2004 34: 224-229.
Commento
Sembra che il piercing negli adolescenti sia un marker di comportamenti rischiosi e può
essere un utile indizio nelle mani del medico per indagare con maggior scrupolo
determinati comportamenti come il fumo, l'uso di droghe, i rapporti sessuali non protetti
o le idee suicidiarie. Si sa come gli adolescenti siano pazienti da gestire con
delicatezza e competenza, che stanno attraversando una fase cruciale dello sviluppo,
sempre pronti a chiudersi a riccio se interrogati su particolari come questi.
Lo studio è quindi interessante tuttavia rimane da determinare se questi dati siano
validi anche per la realtà italiana.
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Q1- Raloxifene
riduce il rischio di cancro mammario invasivo
Nello studio MORE (Multiple Outcomes of Raloxifene Evaluation) il raloxifene,
somministrato per 4 anni a donne in menopausa affette da osteoporosi, ha dimostrato di
ridurre il rischio fratturativo vertebrale, ma non femorale (Ettinger B et al. JAMA 1999
Aug 8; 282:637-645). Inoltre un'analisi dello studio suggerisce che il farmaco possa
avere, a fronte di un aumento del rischio trombotico, un effetto protettivo sullo sviluppo
del cancro mammario (Cummings SR et al. JAMA 1999 Jun 16; 281:2189-2197).
Oltre 5.000 donne che avevano partecipato allo studio MORE hanno continuato l'assunzione
di raloxifene o placebo per altri 4 anni (studio CORE = Continuing Outcomes Relevant to
Evista). Mentre nel MORE la dose di raloxifene era di 60 oppure di 120 mg/die, nel CORE la
dose è stata di 60 mg.
Alla fine dei 4 anni di follow-up il gruppo di donne che assumeva raloxifene mostrava una
riduzione del 59% di tumori mammari invasivi. La riduzione era evidente per i tumori
positivi per i recettori estrogenici (riduzione del 66%) ma non per quelli negativi per
tali recettori.
Considerando insieme gli 8 anni di trattamento (MORE + CORE) la riduzione del rischio è
stata del 66% considerando i tumori totali e del 76% consideramdo solo quelli positivi per
i recettori degli estrogeni.
Fonte: Martino S et al. J Natl Cancer Inst 2004 Dec 1;96:1751-1761.
Commento
Stando ai risultati dei due studi si può dire che il raloxifene è una buona scelta nelle
donne con osteoporosi post-menopausale che si ritiene essere a rischio aumentato di
sviluppare un cancro della mammella (per esempio per forte familiarità). Bisogna però
bilanciare gli effetti benefici della terapia (riduzione delle fratture vertebrali e del
rischio neoplastico mammario) con gli eventi avversi: considerando gli 8 anni di
trattamento il rischio di tromboembolismo è praticamente raddoppiato nelle donne in
trattamento attivo rispetto ai controlli. Il raloxifene va quindi evitato nelle pazienti
con pregresso oppure a rischio di evento tromboembolico. Solo studi futuri potranno
inoltre stabilire se il farmaco potrà avere un ruolo nella prevenzione primaria del
cancro mammario. Nel 2006 dovrebbero essere disponibili i risultati dello studio STAR in
cui vengono paragonati tamoxifene e raloxifene nella prevenzione di questa neoplasia.
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Q2 - Deludenti i
test fecali per la diagnosi del cancro del colon
Anche la ricerca del DNA mutato sulle feci di soggetti di media età,
pur migliorando la scarsa sensibilità del tradizionale test della ricerca del sangue
occulto, tuttavia rimane molto lontano dalla sensibilità della colonscopia.
Su 2507 soggetti a medio rischio di carconoma del colon (età maggiore di 50 anni) il test
del DNA ha svelato 16 dei 31 cancri invasivi, mentre l' Hemoccult II ne ha identificato
soltanto 4 su 31 (51.6 percento vs. 12.9 percento, P=0.003). Il test sul DNA ha svelato 29
delle 71 lesioni rappresentate dai cancri invasivi e gli adenomi altamente displastici,
mentre l' Hemoccult II solo 10 su 71 (40.8 percento vs. 14.1 percento, P<0.001). Tra i
418 pazienti con neoplasia avanzata (definita come: a) adenoma tubulare di almeno 1 cm di
diametro, b) polipo villoso, c) polipo con displasia severa, d) cancro), il test sul DNA
è risultato positivo in 76 casi (18.2 percento), mentre l' Hemoccult II in 45 casi (10.8
percento). La specificità nei soggetti con reperti negativi alla colonscopia è stata del
94.4 percento per il test sul DNA e del 95.2 percento per l'Hemoccult II.
Fonte: NEJM 2004; 351:2704-2714
Link:http://content.nejm.org/cgi/content/short/351/26/2704
Commento di Renato Rossi
Numerosi studi hanno dimostrato che lo screening del cancro del colon tramite la ricerca
del sangue occulto fecale è in grado di ridurre la mortalità specifica. Tuttavia
rimangono numerosi dubbi perchè non si è mai riusciti ad ottenere una riduzione della
mortalità totale. Questo studio dimostra che la ricerca delle mutazioni nel DNA fecale
identifica un maggior numero di neoplasie rispetto al sangue occulto. Tuttavia non vi sono
studi che abbiano valutato se questa nuova metodica sia in grado di ridurre la mortalità.
Sembra quindi ancora prematuro parlare di test di screening con DNA fecale da impiegare su
vasta scala. Inoltre il test non identifica molte neoplasie scoperte invece con l'esame
endoscopico. Anche per la colonscopia, sebbene molte società scientifiche la raccomandino
come test di screening, non esistono per il momento evidenze derivanti da RCT. Sono in
corso studi al riguardo, i cui risultati saranno però disponibili solo fra alcuni anni.
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Q3 Ostracismo a TOS: i
ginecologi italiani non ci stanno
I ginecologi italiani assolvono la terapia ormonale sostitutiva (TOS),
come somministrata in Italia, contro i sintomi della menopausa.
Il professor Antonio Chiantera, segretario nazionale dell'Aogoi, l'Associazione ostetrici
ginecologi ospedalieri italiani ha dichiarato che dagli Usa arriverebbe un allarmismo
infondato, ''un'epidemia di paura'' che va assolutamente ridimensionata. Il rischio di
cancro del seno aumenterebbe appena dello 0,08% contro un aumento del 63% dovuto
all'obesità. Secondo il Prof. Chiantera i dati USA non possono essere considerati
rappresentativi delle donne a cui, solitamente, viene prescritta la TOS in Italia. Le
donne sarebbero ingiustamente private di un valido aiuto. Occorerebbe reagire a tale
situazione e garantire alle donne in menopausa un futuro, a detta del Prof. Chiantera,
migliore ed una qualità di vita che le donne in passato non hanno potuto avere,
sperimentando gli effetti devastanti della depressione in menopausa.Tali asserzioni
sarebberobasate sulle conclusioni del Progetto menopausa Italia (Pmi), uno studio durato
sette anni e condotto su 150 mila donne. I risultati della ricerca, pubblicati nel volume
''Menopausa e terza eta': up to date'', autofinanziato dall'Aogoi, evidenzirebbero le
differenze tra le donne italiane che si rivolgono ai centri menopausa e quelle arruolate
in particolare nel trial Usa Whi (Women health initiative) del 2002.
Dal Pmi, che ha elaborato oltre 200 mila dati provenienti da 440 strutture collegate in
rete - ha riferito Costante Donati Sarti, responsabile del progetto e coautore del libro
con Sonia Baldi - emerge nel dettaglio che ''l'eta' media delle italiane arruolate e' di
53,5 anni, contro i 63,3 anni in media delle americane reclutate nel Whi; le pazienti
obese sono il 13,4% del campione, contro il 34%; le diabetiche il 2%, contro il 4,4%; le
ipertese il 21,7%, contro il 35,7%; le cardiopatiche con un'esperienza di problemi
coronarici l'1,3%, contro il 5,5%; quelle in cura con farmaci ipolipemizzanti lo 0,7%,
contro il 12,5%, e quelle trattate con antiaggreganti piastrinici (la cosiddetta
'aspirinetta') il 2%, contro il 19%''.
In Italia la terapia ormonale sostitutiva sarebbe sempre stata utilizzata in modo mirato.
Nei centri specializzati sarebbe prescritta al 40-42% delle pazienti (contro percentuali
anglo-americane che arrivano a superare l'80%): solo in donne sane tra i 50 e i 54 anni,
se e quando serve (cioe' esclusivamente in presenza di determinati sintomi o per prevenire
l'osteoporosi) e per cicli di tre-quattro anni''. Insomma, ''vogliamo fare giustizia'', ha
affermato il professor Carlo Sbiroli, presidente dell'Aogoi. Da qui l'idea del volume, che
sara' distribuito agli specialisti e nelle librerie, e il cui contenuto sara' condensato
in una dispensa dedicata ai medici di famiglia. Ma il Pmi prevede anche la stesura di
linee guida 'ad hoc' e l'organizzazione di corsi di aggiornamento per ginecologi.
I dati Usa sui rischi della terapia ormonale sostitutiva, come pure quelli inglesi del
trial Mws (Million women study), hanno provocato ''un'epidemia di paura, ma anche di
sfiducia'', ha aggiunto la professoressa Alessandra Graziottin, responsabile del Gruppo di
studio sulla sessuologia all'interno del Pmi. Eppure, ha fatto notare l'esperta, sia dal
Whi sia dal Mws arrivano anche dati rassicuranti: ''Se dal primo studio emerge infatti che
le donne italiane trattate con ormoni sostitutivi sono piu' giovani e piu' sane delle
pazienti americane, seguono la cura per meno anni e solo in presenza di sintomi
menopausali marcati - ha commentato - dal secondo arrivano altre buone notizie: ne' la
terapia ormonale pregressa ne' la pillola contraccettiva ne' gli estrogeni da
somministrare per via vaginale fanno aumentare il rischio di cancro del seno''.
In conclusione, ''le donne italiane possono stare tranquille - avrebbe affermato la
Graziottin - Lo dimostrerebbe il fatto che 'chi lo sa lo fa', ovvero che l'uso degli
ormoni in menopausa e' elevato soprattutto tra chi sa leggere e interpretare gli studi
clinici: il 56,5% delle ginecologhe italiane in menopausa usa ormoni (una percentuale
sette volte superiore a quella generale, pari all'8,4%), come pure il 59% delle mogli dei
ginecologi italiani''.
Fonte: Opa/Adnkronos Salute
Commento di Luca Puccetti
Francamente c'è da rimanere sorpresi da queste posizioni. Sarebbe come dire che se si
prendesse un prodotto anche potenzialmente nocivo e si evitasse di darlo agli anziani e ai
soggetti cardiopatici, diabetici, dislipidemici non succederebbe nulla mentre al contrario
se venisse sommnistrato ai malati o agli anziani ci potrebbero essere problemi. Non mi
pare fosse necessario fare uno sforzo così titanico come sembrebbe il PMI per scoprire
cose che qualsiasi agenzia di monitoraggio vendite farmaceutiche avrebbe potuto
agevolmente documentare. Era arcinoto a tutti che in Italia la percentuale di donne in TOS
erano mediamente più giovani delle nordamericane e che dunque ipso facto erano meno
inclini ad essere diabetiche, cardiopatiche e dislipidemiche. Era parimenti noto che la
durata media di una TOS in Italia era di 9 mesi contro durate assai più lunghe negli USA.
E meno male!
A parte queste facili considerazioni, mi sembra più opportuno cercare di portare un
contributo per cercare di interpretrare i risultati dei vari studi. La mia opinione è la
seguente. Nelle donne più giovani, non diabetiche, non dislipidemiche, lo stato
endoteliale al momento della menopausa è probabilmente piuttosto ben conservato e
pertanto la sommninitrazione della TOS non sbilancia sensibilmente la bilancia in senso
procoagulativo perchè mancano i focolai trombogeni. Laddove a causa di età,
dislipedemie, diabete l'endotelio è già compromesso e vi sono numerose placche, magari
fissurate o instabili, la somministrazione di TOS provoca un aumento sensibile del rischio
trombogeno con aumento relativo di eventi. Pertanto mi pare che gli orientamenti attuali
siano adeguati alle informazioni che sono ad oggi note. LA TOS dovrebbe essere prescritta,
informando adeguatamente la paziente, come sempre del resto, sui possibili rischi sul
piano individuale che le evidenze dei trials hanno indicato e solo per brevi periodi,
limitatamente al controllo dei sintomi quando essi siano di tale gravità da inficiare
significativamente la qualità della vita e comunque la paziente non possa o voglia
sopportare. A parte la prevenzione della TOS e del cancro del colon, la TOS ha fallito nel
dimostrare tutti i vantaggi che gli studi osservazionali degli anni 90 lasciavano
supporre. Poichè esistono presidi alternativi di provata efficacia sulla prevenzione
dell'osteoporosi e poichè solo poche donne presentano sintomi da deprivazione ormonale
tanto severi la TOS appare una terapia da riservare a casi particolari, limitattamente al
controllo della fase acuta dei sintomi climaterici ed in donne senza fattori di rischio
cardiovascolare.
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Q4 Tegaserod efficace in
stipsi da colon irritabile
Il Tegaserod è risultato efficace e ben tollerato nella stipsi da colon irritabile.
Uno studio randomizzato, multicentrico, controllato con placebo, ha considerato 1348
adulti (90% donne) con stipsi cronica per valutare l'efficacia del tegaserod (un agonista
serotoninergico) nella sindrome del colon irritabile. I soggetti sono stati randomizzati e
trattati con 2 mg (n = 450)o 6 mg (n = 451) di tegaserod due volte al giorno, oppure
placebo (n = 447), per 12 settimane.
Unevacuazione settimanale spontanea e completa oltre quelle abituali è stata
osservata nel 43% dei pazienti trattati con 6 mg, nel 41% di quelli trattati con con 2 mg
e nel 25% nel gruppo placebo (p<0,001 rispetto al placebo con entrambe le dosi di
tegaserod ). Leffetto si è protratto per le 12 settimane del trattamento.
Lutilizzo di lassativi è diminuito in tutti e tre i gruppi, con nessuna differenza
significativa tra farmaco e placebo. I pazienti trattati, rispetto a quelli del gruppo
controllo, hanno inoltre manifestato un significativo miglioramento di gonfiore, dolore e
tensione addominale; non è stato osservato nessun effetto rebound nelle 4 settimane
successive al termine del trattamento ed il farmaco è stato, nel complesso, ben
tollerato.
Fonte: Clin Gastroenterol Hepatol. 2004; 2:796-805
Commento
Questo studio mette in evidenza, contrariamente a precedenti risultati una buona
tollerabilità del tegaserod. Nell'ampio studio multicentrico, randomizzato, a doppio
cieco, controllato da placebo Zensaa al quale hanno partecipato 2.660 pazienti donne
affette dalla sindrome dellintestino irritabile con costipazione, nei pazienti che
assumevano tegaserod (3,8%) rispetto a coloro che assumevano placebo (0,6%) è stata
osservata un incremento dell'incidenza di diarrea che si è dimostrata solo in rari casi
transitoria (0,9%). Anche in questo studio si conferma l'importanza dell'effetto placebo
nei protocolli sulla stipsi, come dimostrato dalla mancata riduzione del ricorso ai
lassativi.
Luca Puccetti
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QQ1 L’ipertensione
danneggia le funzioni cognitive, la terapia le preserva.
Come
e’ gia noto, vi e’ una correlazione diretta fra la pressione del sangue e il
rischio, nei soggetti anziani, dell’insorgere della demenza vascolare. L'
ipertensione, sia agendo sul sistema
vascolare del cervello che direttamente sul cervello stesso, aumenta in maniera
statisticamente rilevante la possibilita’ che le funzioni cognitive decadano.
Studi
clinici e osservazioni hanno mostrato che una azione medica attiva sulle persone ipertese, mirata alla
diminuzione della pressione diminuisce sia tasso di morbosità che la mortalita'; e' stato inoltre osservato che la diminuzione della pressione
arteriosa migliora sensibilmente la qualita’ della vita e preserva le funzioni
cognitive.
Non
sempre la terapia basata su un solo farmaco è sufficiente per garantire una
azione efficace nei confronti dell’ipertensione; molti pazienti necessitano,
difatti, di una terapia combinata composta da più farmaci. Le terapie combinate
(tipicamente un diuretico insieme ad un inibitore ACE, un ARB o un beta
bloccante) sono appropriate maggiormente nel caso di pazienti anziani;
risultano infatti ben tollerate, e sono in grado di contribuire notevolmente
alla conservazione delle funzioni cognitive.
Guido
Zamperini
Fonte : Papademetriou V. - Geriatrics. 2005 Jan;60(1):20-2, 24.
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QQ2
La
genetica dell’autismo
Il
disturbo autistico della personalita’ (299.00 dell ICD9 CM) e’ uno dei piu’
particolari disturbi dell’infanzia, in quanto interessa la maggior parte delle
funzioni cognitive del bambino. Non a caso, infatti, al disturbo autistico
viene di solito abbinato un lieve ritardo mentale (35-50 QI), e circa il 75%
dei bambini autistici funzionano ad un livello ritardato. Il profilo delle
capacita’ cognitive e’, solitamente, irregolare, indipendentemente dal QI
generale. Puo’ capitare, infatti, che alcune capacita’ specifiche siano
maggiormente sviluppate rispetto alla media.
La ricerca
riguardante il disturbo autistico e’, come si puo’ quindi immaginare, particolarmente
attenta all’insorgenza della malattia stessa, e piu’ specificatamente nella
ricerca del gene che ne causerebbe l’insorgenza. In questi ultimi 10 anni di
ricerche si e’ scoperto che l’insorgenza della sindrome non e’ dovuta ad un
singolo gene, ma piuttosto ad una sinergia di 10-20 geni differenti. Studi
condotti su gemelli e sui familiari dei soggetti autistici hanno dimostrato che la parentela genetica
aumenta sensibilmente l’insorgenza di sintomi autistici o simili. Inoltre,
molte sindromi genetiche o anomalie cromosomiche sono spesso associate con l’insorgenza
dell’autismo. E’ quindi ipotizzabile che un complesso sistema di interazioni a
livello genetico alla base del disturbo.
Guido
Zamperini
Fonte:
Semin Pediatr Neurol. 2004 Sep;11(3):196-204.
PUBMED PMID: 15575414
DSM-IV
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QQ3 I disturbi dell' alimentazione: meglio i farmaci o la
psicoterapia?
La terapia comportamentale, insieme ad alcuni farmaci,
hanno mostrato in precedenti studi una effettiva utilita’ contro la bulimia, ma
nessun studio ha comparato scientificamente il trattamento medico e quello
comportamentale.
C.M.Grilo, del dipartimento di psichiatria della Yale
University (New Haven, Connecticut), in collaborazione con R.M. Masheba e
G.T.Wilson, del Dipartimento di Psicologia della State University of New Jersey (Piscataway, New Jersey), hanno
condotto uno studio randomizzato in confronto con placebo al fine di verificare
le eventuali differenze fra la terapia comportamentale e la terapia farmacologica
con fluoxetina.
Lo
studio è stato condotto su 108 pazienti, randomizzati in 4 gruppi, che venivano
poi trattati diversamente: ad un gruppo e’ stata somministrata fluoxetina,
60mg/die); ad un secondo gruppo e’ stato somministrato placebo; ad un terzo
gruppo e’ stata somministrata terapia comportamentale e fluoxetina (60 mg/die);
al quarto gruppo e’ stata somministrata la terapia comportamentale insieme al
placebo. Le cure sono state condotte in doppio cieco.
Dei
108 pazienti l’80 % (86) hanno completato la cura. La percentuale di remissione
al termine del trattamento (per chi lo ha condotto a termine), intesa come
l’assenza di episodi bulimici per 28 giorni, è stata del 29% per il gruppo
trattato con la fluoxetina, il 30% per quello trattato con il placebo, il 55%
per il gruppo con psicoterapia piu’ fluoxetina e il 61% per il gruppo trattato
con terapia piu’ placebo.
La
fluoxetina non risulta maggiormente efficace del placebo, ne' in un confronto
diretto ne' insieme alla psicoterapia
comportamentale, mentre per entrambi i gruppi in trattamento comportamentale si
osserva una ,aggior percentuale di
remissione, statisticamente significativa.
La
terapia comportamentale si è rivelata quindi superiore rispetto alla terapia
medica per la cura dei disordini alimentari di tipo bulimico.
Guido
Zamperini
Biol Psychiatry. 2005 Feb 1;57(3):301-9. - PUBMED PMID: 15691532
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R - News prescrittive di Marco
Venuti (dalla Gazzetta Ufficiale)
Lamisil, Daskil,
Terbitef - Modifica dello schema posologico ed
estensione all'uso nei bambini a partire dai 12 anni di età (confezioni
crema)
Fristamin, Clarityn e Alorin - Modificate le
indicazioni terapeutiche; le nuove indicazioni sono:
trattamento sintomatico della rinite allergica (AR) e dell'orticaria cronica
idiopatica (CIU).
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APPROFONDIMENTI
AA1 - Buon sangue non mente ( Generalita'
sulle applicazioni della genetica
in campo forense)
Lanalisi del DNA è una tecnica che viene sempre più usata
in campo giuridico. Questo perché la tecnica si presta a molteplici applicazioni: dal
riconoscimento dei corpi (si pensi le fosse comuni ritrovate nelle zone calde della Terra,
ai desaparecidos argentini, ai morti delle Torri Gemelle) alla determinazione della
discendenza nelle cause civili per le eredità.
Sempre più spesso, perciò, si sente parlare della genetica applicata nel campo delle
indagini forensi. Lapplicazione della genetica nelle indagini poliziesche ha
permesso di aprire campi di indagine prima sconosciuti: una piccola traccia biologica,
come un capello o una goccia di sangue, non si limita più a fornire una descrizione di
massima sul soggetto a cui appartiene, ma parla del suo proprietario in maniera molto più
dettagliata.
In una scena del delitto si analizzano i reperti, le tracce, i segni, per cercare di
capire quale possa esserne stata la dinamica. La dinamica ha infatti la funzione primaria
di consentire agli investigatori di comprendere pienamente l' accaduto, quali siano stati
gli attori e come si siano mossi.
Un problema non secondario è quello della separazione delle eventuali tracce biologiche
in base al proprietario delle stesse. Poter affermare che una eventuale macchia di sangue
appartenga allassassino, e non alla vittima o ad un eventuale soccorritore, e' il
presupposto che consente agli investigatori di poter indagare con celerità e precisione.
Il concetto alla base di questa prima analisi è quello della verifica della
compatibilità genetica. Sappiamo che gli esseri viventi sono codificati da una specifica
sequenza genica, con lesclusione dei gemelli monozigoti (che hanno lo stesso
identico DNA, e che perciò sono indistinguibili in questo senso).
Questa unicità delle sequenze geniche ci permette, mediante un raffronto, di identificare
il proprietario dei "reperti biologici" che vengono trovati nella scena del
crimine. Vengono confrontati una serie di loci genetici particolari, detti
"marcatori" con criteri simili a quelli che si usano nel confronto delle
impronte digitali. Se il campione-prova e il campione di raffronto sono compatibili per
13-16 marcatori, si considera positivo il confronto. Questo perché la probabilità che
con 13-16 marcatori positivi il campione-prova possa appartenere ad un'altra persona è
bassissimo, al punto di essere pressoche' nullo.
Lo stesso discorso vale per il caso contrario: se i marcatori indicano un profilo genico
differente, la probabilità che appartenga alla persona con cui è stato fatto il
raffronto è infinitesimale, errori umani esclusi.
Gli errori umani possono consistere in errori tecnici nell' effettuazione delle analisi,
ma anche (come si e' verificato recentemente in un clamoroso caso giudiziario che ha
coinvolto le polizie di Italia e del Regno Unito) in errori di trascrizione o di
copiatura.
Ma come si può fare un confronto fra l' elemento di prova trovata e il campione di
riferimento? Tutto è semplice quando è possibile ottenere il DNA da tutti gli attori del
fatto. Si complica, invece, quando gli attori sono scomparsi, o comunque non sono
raggiungibili, come nel caso di un assassino sconosciuto che fugge dopo il delitto. Come
fare, allora?
Una soluzione (molto gradita alle polizie di tutto il mondo) sono i database. I database
sono enormi archivi che contengono il DNA codificato e pronto per i confronti di
determinate classi di popolazione.
Ad esempio i poliziotti, soprattutto negli Stati Uniti, hanno il proprio DNA registrato
presso i database forensi. Questo per poter discernere facilmente le prove biologiche
realmente facenti parte della scena del delitto da quelle che possono essere state
lasciate, per caso, dagli inquirenti.
Altre classi di popolazioni registrate sono, ad esempio, i pregiudicati; i militari di
carriera, di solito, registrano il proprio profilo genico, per poter consentire
unidentificazione nel caso cadessero in battaglia.
Uno dei problemi di questi database è la codifica del DNA. Nella maggior parte dei paesi
si cerca di usare un protocollo unico per il raffronto, al fine di poter far coincidere i
marcatori usati per lanalisi della prova con quelli usati per la registrazione del
profilo del DNA. Questo non sempre accade, in quanto le polizie dei diversi Paesi si
basano su protocolli diversi anche se, fortunatamente, di solito parzialmente coincidenti.
Lavorando al di fuori dei database (che contengono la codifica completa del DNA), bisogna
procedere per indizi, basandosi anche sulla relazione genotipo-fenotipo. Alcune sindromi
genetiche (Marfan, Pradel-Willi, Sotos) si manifestano infatti nelle caratteristiche del
fenotipo (peso, altezza, ecc. ecc.), e possono essere utilizzate per restringere il campo
di ricerca del genotipo corrispondente. Si moltiplicano inoltre gli studi che cercano di
stabilire un rapporto univoco fra determinate sequenze e determinate "forme"
fenotipiche. Questi studi sono ancora lontani dellessere completi, ma quando lo
saranno, sarà possibile determinare laspetto delle persone dal loro DNA.
Il sesso di una persona è facilmente identificabile dal suo DNA. Con questo test, in
linea teorica, sarebbe possibile escludere dalla ricerca del colpevole il 50% delle
persone (assumendo che questa sia la proporzione uomo-donna sulla terra). In realtà la
capacità discriminativa di questo test, in criminologia, è molto inferiore, in quanto
statisticamente il 90% dei crimini è perpetrato da uomini. Qualunque marcatore per il
cromosoma Y può essere utilizzato per identificare il sesso (in quanto il cromosoma Y è,
salvo particolari sindromi, tipico del sesso maschile).
Per quanto riguarda il gruppo sanguigno (che molti considerano ormai, da questo punto di
vista, "superato"), sebbene non sia un tratto esteriormente decifrabile, resta
importante nelle ricerche in genetica forense per le ampie conoscenze in materia. Infatti
la registrazione del gruppo sanguigno viene effettuata allorche' ci si rivolga ad un
ospedale, clinica, pronto soccorso o dentista, e viene registrata nella cartella clinica.
Il DNA mitocondriale e' un settore di ricerca relativamente recente, con importanti
peculiarita'. Esso segue esclusivamente la discendenza femminile, praticamente intatto. È
possibile quindi, mediante la sua analisi, verificare la parentela in senso matrilineare
risalendo anche a parecchie generazioni prima. In questo senso riveste un ruolo
paragonabile, nel DNA nucleare, a quello del cromosoma Y, che permette di identificare e
seguire la linea patriarcale.
Guido Zamperini
Fonte: Biologi Italiani n. 10, nov. 2004 pagg.
31-37
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MEDICINA LEGALE E NORMATIVA
SANITARIA
Rubrica gestita da D.Z. per ASMLUC: Associazione
Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica
ML1 - Cassazione: medici responsabili anche per "colpa lieve"
La Corte di Cassazione amplia la responsabilità dei medici chiamati
a rispondere anche per colpa lieve qualora "per omissione di diligenza o imprudenza
provochino un danno nell'esecuzione di un intervento".
Questi principi, in realta' non sono nuovi, apparetenendo al retaggio della
Medicina Legale tradizionale, ma e' stato sottolineata la possibilita' di
responsabilita' anche nel caso di "colpa lieve", un tempo ritenuta
esente da problemi sanzionatori.
Cio' che spesso viene dimenticato e' che il principio dell' esenzione della
colpa lieve trova applicazione essenzialmente nei casi di imperizia o in
quelli "di speciale difficolta'" mentre nessuno "sconto"
viene previsto in caso di mancanza di prudenza o diligenza. La prudenza e la
diligenza prescindono infatti dalla difficolta' dell' intervento, e devono
essere pretesi sempre nel massimo grado da parte dell' operatore sanitario.
Infatti la Suprema Corte ha respinto il ricorso presentato da Antonio
C., un ginecologo-ostetrico napoletano, condannato, insieme alla casa di cura, a risarcire
i genitori di un neonato venuto al mondo con "danni irreversibili" a un miliardo
di vecchie lire per "avere praticato un parto per via naturale a una sua paziente per
la quale si sarebbe dovuto intervenire con un cesareo".
Secondo piazza Cavour, nel momento in cui il professionista fa un errore "iniziale
nella scelta della tecnica operativa", non ha più importanza "l'assunto del
medico" che rivendichi un "evento imprevedibile" nel corso dell'intervento.
Invano il medico si è difeso in Cassazione sostenendo che si era trovato di fronte a una
"improvvisa emergenza" legata a una "distonia della spalla del feto non
prevedibile come rilevato dai consulenti" e che, dunque, aveva dovuto optare per il
parto naturale per "evitare la morte del feto".
La Terza sezione civile ha obiettato che "la responsabilità legata all'esercizio
dell'attività di un professionista trova applicazione nel criterio della diligenza del
buon padre di famiglia". Pertanto, hanno scritto gli Ermellini nella sentenza 583/05,
la "responsabilità del medico per i danni causati al paziente postula la violazione
dei doveri inerenti al suo svolgimento tra i quali quello della diligenza che va a sua
volta valutato con riguardo alla natura dell'attività con implica attenzione e adeguata
preparazione".
Di qui la responsabilità dei medici anche per "colpa lieve" quando per
"omissione di diligenza o di imprudenza" provochino un "danno
nell'esercizio di un intervento".
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ML11a Assenza alla visita di controllo: i
motivi devono essere "indifferibili"
Corte Suprema di Cassazione Sez. Lavoro Sentenza n. 4247 del 2 marzo 2004
S. C. era stato riscontrato assente dal proprio domicilio in occasione di una visita di
controllo, effettuata in orario ricompreso nelle fasce di reperibilità durante un periodo
di sua malattia, per cui era stato soggetto alle sanzioni previste dalla legge.
Il C. aveva chiarito di essersi recato nella mattina in questione a visita medica presso
il proprio medico curante, per il prescritto controllo della pressione in quanto affetto
da "epistassi posteriore da ipertensione arteriosa".
Il Giudice di I grado aveva accolto la tesi di S.C., che veniva invece respinta in sede di
appello.
I giudici di appello osservavano infatti che la circostanza che il C. si fosse recato
nell'ambulatorio del proprio medico per il controllo della pressione (necessario essendo
egli affetto da epistassi posteriore da ipertensione arteriosa) non poteva giustificare la
sua assenza al domicilio in orario ricompreso nella fasce orarie di reperibilità.
Si trattava, infatti, di una operazione certamente non indifferibile, la cui necessità
non poteva dirsi neppure imprevedibile. Tra l'altro, osserva la Corte territoriale,
l'orario di apertura dello studio del medico curante non coincideva del tutto con le fasce
orarie di reperibilità. Si trattava pertanto di un adempimento che bene avrebbe potuto
essere effettuato in momenti diversi da quelli previsti per le visite di controllo.
La Cassazione confermava questa tesi, condannando il lavoratore: l'assenza ad una visita
di controllo domiciliare può dirsi giustificata solo dalla sussistenza di un motivo molto
serio, concretantesi nella insuperabile necessità di effettuare un determinato
adempimento in orario ricompreso nella fasce orarie di reperibilità. L'onere di fornire
tale prova, ovviamente, è a carico del lavoratore (Cass. 23 dicembre 1999 n. 14503).
Il lavoratore riscontrato non reperibile per essersi recato a una visita presso il medico
di fiducia, deve provare che la causa del suo allontanamento dal domicilio durante le
fasce orarie, pur senza necessariamente integrare una causa di forza maggiore,
costituisca, al fine della tutela della salute, una necessità quale mezzo per curare la
malattia (Cass. 7 ottobre 1997 n. 9731).
E' necessario in altri termini che il lavoratore provi che la sua assenza è stata
determinata da situazioni tali da comportare adempimenti non effettuabili in ore diverse
da quelle di reperibilità (Cass. 4 marzo 1996 n.1668). Si tratta di onere probatorio
certamente gravoso, ma non impossibile, e quindi esigibile.
La prestazione richiesta dal C. al proprio medico curante, invece, non poteva dirsi
urgente e comunque la stessa era sicuramente prevedibile e quindi proprio in quanto tale
avrebbe potuto essere preventivamente comunicata all'Istituto previdenziale.
Per questi motivi la Corte rigettava il ricorso del lavoratore.
Daniele Zamperini
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ML11b IVA e prestazioni
sanitarie: la parola definitiva
L Agenzia delle Entrate ha recentemente chiarito, con Circolare n.
4 del 28.01.2005, alcuni aspetti controversi circa l assoggettabilita di
alcune prestazioni mediche all IVA.
La questione si era posta dopo le sentenze della Corte di Giustizia Europea ( sentenze del
20 novembre 2003, cause C-307/01 e C-212/01) che aveva ribadito l obbligo di IVA per
le prestazioni mediche di carattere peritale.
Sintetizzando la lunga Circolare, la questione puo essere cosi riassunta:
- Sono e restano esenti da IVA le prestazioni e le certificazioni finalizzate, in modo
diretto o indiretto, alla tutela della salute del singolo o della collettivita.
- Sono soggette ad IVA le certificazioni di tipo "peritale" non riconducibili a
questi fini.
Per quanto riguarda specificatamente le prestazioni dei Medici di Famiglia, sono
esenti da IVA, anche quando rese dietro pagamento di un corrispettivo, le prestazioni
rese dai medici di famiglia nell'ambito delle proprie attività convenzionali e
istituzionali, comprese quelle attività di natura certificativa strettamente connesse
all'attività clinica resa ai propri assistiti e funzionalmente collegate alla tutela
della salute delle persone, intesa anche come prevenzione.
A titolo esemplificativo:
- certificati per esonero dalla educazione fisica;
- certificazione di idoneità per attività sportiva;
- certificati per invio di minori in colonie o comunità;
- certificati di avvenuta vaccinazione.
Sono invece soggette ad IVA le prestazioni di natura peritale, cioè quelle
tendenti a riconoscere lo status del richiedente rispetto al diritto all'indennizzo o al
diritto ad un beneficio amministrativo o economico.
Ad esempio:
- Certificazione per assegno di invalidità o pensione di invalidità ordinaria;
- Certificazione di idoneità a svolgere generica attività lavorativa;
- Certificazioni peritali per infortuni redatte su modello specifico;
- Certificazione per riconoscimento di invalidità civile.
Sono gratuite e quindi non soggette ne a pagamento di un corrispettivo
ne dell IVA determinate prestazioni la cui obbligatorietà deriva per
legge dalla natura dell'attività esercitata. Si tratta ad esempio di:
- dichiarazione di nascita, dichiarazione di morte;
- denunce penali o giudiziarie;
- denunce di malattie infettive e diffusive;
- notifica dei casi di AIDS;
- denuncia di malattia venerea;
- segnalazione di tossicodipendenti al servizio pubblico;
- denuncia di intossicazione da antiparassitario;
- denuncia della condizione di minore in stato di abbandono;
- certificati per rientro al lavoro o per rientro a scuola a seguito di assenza per
malattia.
Esame di casi particolari:
Esempi di certificazioni esenti da IVA:
a) i controlli medici regolari, istituiti da taluni datori di lavoro o da talune
compagnie assicurative, compresi i prelievi di sangue o di altri campioni corporali per
verificare la presenza di virus, infezioni o altre malattie;
b) il rilascio di certificati di idoneità fisica ad esempio a viaggiare;
c) il rilascio di certificati di idoneità fisica diretti a dimostrare nei confronti di
terzi che lo stato di salute di una persona impone limiti a talune attività o esige che
esse siano effettuate in condizioni particolari.
Attivita medico-legali di tipo peritale: soggette ad IVA
Accertamenti medico-legali effettuati dall'INAIL, sulla base di convenzioni stipulate
con aziende, connessi alle istanze di riconoscimento di "cause di servizio"
presentate da lavoratori dipendenti in relazione ad infortuni, stati di infermità,
inabilità assoluta o permanente: soggetti ad IVA
Prestazioni rese dalle commissioni mediche di verifica in relazione alle istanze di
pensione di invalidità, se libero-professionali: soggette ad IVA
Prestazioni rese dai medici libero professionisti componenti delle Commissioni mediche
per le patenti di guida: esenti da IVA - Le somme dovute dagli utenti per questi
fini sono esenti da IVA.
Visite mediche per il rilascio o il rinnovo di patenti: esenti da IVA
Prestazioni del medico competente: esenti da IVA
Prestazioni di chirurgia estetica: esenti da IVA
Prestazioni intramoenia di medicina legale: soggette ad IVA (fatturate dall Ente).
Per le prestazioni effettuate anteriormente a questa circolare, valgono i principi
enunciati dall Agenzia delle Entrate in data 11/06/2004: " qualora il medico
abbia seguito le indicazioni ministeriali che prevedevano il regime di esenzione, per il
principio di tutela del legittimo affidamento, è esclusa nei suoi confronti
lapplicazione di sanzioni.".
Alcune precisazioni e considerazioni:
- L aliquota IVA da applicare e quella del 20%
- La fatturazione di prestazioni soggette ad IVA comporta alcuni obblighi fiscali (tenuta
di registri, versamenti periodici, commercialista) che hanno un costo aggiuntivo per il
medico.
- Resta salvo il diritto, per il medico, di effettuare prestazioni e certificazioni
gratuitamente; qualora invece richieda il pagamento, deve rispettare le tariffe minime
dell Ordine, ma non e obbligato a tenersi sul minimo.
- Il sanitario che effettui prestazioni soggette ad IVA in modo assolutamente raro e
saltuario puo quindi valutare la convenienza di effettuarle gratuitamente; in
alternativa e consigliabile tener conto, nella scelta della tariffa da applicare, di
queste spese aggiuntive.
Daniele Zamperini
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ML1/b
Il medico e la legge: cap. 10: Responsabilità
professionale e dovere d'informazione
(Avv. Nicola Todeschini)
Si diceva poc'anzi della rilevanza autonoma del dovere
d'informazione sussistente in capo al sanitario, quale aspetto ulteriore da analizzare in
questa sede. Ebbene, l'evoluzione giurisprudenziale e dottrinale in tema di dovere
d'informazione, nell'ottica del più ampio problema di tutela del "consumatore-
cliente", in quanto parte più debole[1], assume nel nostro caso riflessi di assoluta
emergenza, anche in considerazione della loro recente
manifestazione.
Del tutto confacente alla presente disamina risulta l'analisi di alcuni casi interessanti,
in special modo in ordine al rilievo del dovere d'informazione. Uno di essi è certamente
quello del piccolo Jod [2], caso
discusso in primo grado presso il Tribunale di Padova [3] e giunto in Cassazione [4] dopo
la conferma in Appello, nel 1994.
Invero,
all'attenzione dei giudici, nel caso di specie, non è l'indiligente esecuzione
dell'intervento di interruzione della gravidanza, bensì l'omessa informazione che il
sanitario avrebbe dovuto garantire alla paziente, in merito alla necessità di sottoporsi
a successivi controlli, soprattutto in considerazione della prevedibilità dell'esito
negativo dell'intervento subito, e dalle intervenute dimissioni volontarie della paziente
stessa. Ebbene, la Corte di Cassazione ha sanzionato il comportamento del sanitario
-rectius della struttura sanitaria- proprio in punto di violazione del dovere
d'informazione, a riprova della sua autonoma rilevanza, non solo in quanto presupposto
ineliminabile per la prestazione del consenso da parte del paziente, ma anche come dovere
che trova la sua origine nella condotta diligente del sanitario. Se ne può apprezzare
altresì la necessaria consistenza nel tempo: il dovere d'informare il paziente non cessa
né dopo la prestazione del consenso -detto per l'appunto <<informato>>- né
dopo le dimissioni volontarie che eventualmente il paziente stesso renda.
Ma l'occasione è stata propizia anche per consentire alla Corte di Cassazione di
criticare le prese di posizione dei giudici di merito in punto di individuazione degli
interessi protetti dalla legge 194/1978 sull'interruzione di gravidanza; in considerazione
dei profili d'interesse che tale pronuncia rappresenta ai fini del prosieguo della
disamina in corso, ritengo opportuno riprenderne alcuni passaggi. La Suprema Corte ha nell'occasione sottolineato
come non sia ammissibile concedere un risarcimento del danno patrimoniale subito dai
genitori, per l'inaspettata nascita del figlio, sulla base dell'assunta difficile
condizione economica degli stessi. Invero, la Corte di Cassazione ha ricordato che in
sostanza la legge non consente l'interruzione della gravidanza solo perche' una donna versi in disagiate condizioni
economiche, ma la consente soltanto se dette condizioni possano influire negativamente
sulla salute della donna.
L'interesse protetto dalla norma e' quindi la salute della donna; il diritto
all'interruzione della gravidanza e' riconosciuto solo in ragione della tutela del detto
interesse. Da cio' consegue che in caso di
accertata responsabilita' del sanitario per la mancata interruzione della gravidanza, il
diritto al risarcimento del danno puo' essere riconosciuto alla donna non per il solo
fatto dell'inadempimento dell'obbligazione che il sanitario era tenuto ad adempiere, ma se
sia anche provata la sussistenza della messa in pericolo o di un danno effettivo alla
salute fisica o psichica della madre.
Secondo i giudici della Suprema Corte il mancato riconoscimento dell'importanza di una
corretta individuazione dell'interesse protetto dalla norma, ha compromesso l'obiettiva
analisi da parte dei giudici di merito. Coerentemente quindi afferma la Corte di
Cassazione che:
Il ragionamento della Corte di merito e' errato, perche', tenuto conto dell'interesse
protetto dall'art. 4, il danno non puo' essere individuato nel solo fatto di aver dovuto
prima del previsto sopportare gli oneri economici conseguenti alla intempestiva nascita
del figlio, se non sia positivamente accertato che tale fatto abbia messo in pericolo
ovvero abbia inciso negativamente sulla salute della donna, sotto l'aspetto fisico o
psichico, nel qual caso il risarcimento del danno andrebbe determinato in quella somma
necessaria a rimuovere le difficolta' economiche idonee ad incidere negativamente sulla
salute della donna ovvero a risarcire quest'ultima dei danni alla salute in concreto
subiti.
Proseguendo nella disamina
dei casi d'interesse per il corretto inquadramento della materia, mi propongo di
analizzare un aspetto forse in parte trascurato. Se invero è stato a sufficienza
sottolineato il ruolo dell'informazione e del consenso relativo, come elemento costitutivo
del contratto di prestazione d'opera professionale, dal quale scaturisce il consenso come
legittimante l'intervento del sanitario sulla persona del paziente, non si è forse
argomentato a sufficienza in merito al perdurare del dovere d'informazione anche dopo
l'effettuazione della terapia illustrata e dell'indagine diagnostica condotta.
Un altro caso specifico, ancora inedito, può certo meglio descrivere l'autonoma rilevanza
del dovere d'informazione: una donna, portatrice sana di una patologia a rischio per la
gravidanza[5], rimasta incinta della
seconda figlia, si reca presso il proprio ginecologo, al quale affida anche l'assistenza
di tale seconda gravidanza. Su consiglio dello stesso medico, la paziente si reca presso
altro presidio ospedaliero, al fine di effettuare un esame molto delicato -prelievo dei
villi coriali- necessario a stabilire se anche il frutto del secondo concepimento fosse
portatore della patologia di origine materna. L'esame comporta delle conseguenze
devastanti sulla salute del feto, rilevate, tramite indagini ecografiche, solo
intempestivamente -e colpevolmente- quando i termini per l'eventuale interruzione della
gravidanza sono ormai decorsi. A questo punto il medico non ritiene di informarne i
genitori, "supponendo che
simili anomalie fossero correlate a malformazioni degli organi interni tali da originare
linterruzione naturale della gravidanza o da non consentire la sopravvivenza dopo il
parto del nascituro" .
Al termine della gravidanza la paziente, con
parto spontaneo, da' alla luce una bambina, la quale risulta affetta da un quadro
polimalformativo[6] particolarmente
grave. Fin qui i fatti.
Cercherò ora di trarne alcune osservazioni.
Se l'informazione e il
consenso completo e cosciente del paziente all'indagine diagnostica ne legittimano
l'effettuazione, integrando gli estremi della condotta diligente del professionista, quid
iuris relativamente alla mancata indicazione al paziente degli esiti infausti
dell'indagine diagnostica intrapresa ?
Il tema è delicato e risente di valutazioni non solo tecniche e professionali ma anche e
soprattutto umane e culturali, tanto più quando l'informazione investa prognosi gravi o
infauste. Tra i fautori della tesi che esprime il proprio favor nei confronti della non
manifestazione della verità in tutta la sua crudezza, si segnalano alcuni principi quali
quello della <<beneficialità>> che, prevalendo sul dovere di non mentire,
fonderebbe la propria validità sull'esigenza di non recare danno al paziente anche dal
punto di vista psichico, e ancora quello dell'indesiderabilità del paziente di conoscere
la verità quando spiacevole.
A tali argomentazioni si oppongono altre valutazioni che prospettano, al contrario, una
violazione della libertà ed autonomia del paziente, e la presunta volontà dello stesso
di essere correttamente informato.
Invero, il rapporto fiduciario che con il medico si instaura, presuppone un rapporto di
reciproca informazione e lealtà, sulla base del quale si concreta l'affidamento del
paziente nel medico stesso. Interrompere tale tipo di rapporto, delicatissimo e labile,
consentendo una sorta di compressione di tali principi, in nome di valutazioni del tutto
personali e non verificabili, potrebbe essere una scelta altrettanto ardua e non esente da
pericoli, da relegare forse ad un limitato numero di casi, non definibili a priori, nei
quali l'emersione di particolari debolezze psichiche unitamente a quadri clinici
disperati, possano suggerire comportamenti di segno relativamente opposto rispetto al
dovere ordinario d'informazione completa.
Che il medico debba tenere sempre viva la speranza del paziente, giacché è comunque di
fondamentale importanza, anche al cospetto di una prognosi infausta, che il suo quadro
psicologico sia capace di sostenere scelte e produrre reazioni importanti di fronte alla
malattia, è dato di fatto ineliminabile, anche nella prospettiva che la prognosi infausta
possa rivelarsi eccessivamente pessimistica. In tali casi la comunicazione, per così dire
filtrata e non del tutto "fedele", potrebbe risultare accettabile se funzionale
ad un possibile risultato positivo e migliorativo, per quanto in via di presunzione, del
quadro complessivo del paziente. Non sussistendo al contrario tali presupposti risulta
più complesso rinvenire una causa giustificativa capace di poter derogare validamente al
dovere di una completa informazione.
La complessità
del tema potrebbe ulteriormente aggravarsi in ipotesi, come quella di cui si discute,
nelle quali il destinatario dell'informazione sia persona diversa da quella che di fatto
è investita in concreto dalla prognosi infausta: mi riferisco al caso -per ultimo
descritto- della donna in gravidanza, alla quale venga diagnostica, ma non comunicata, la
presenza di malformazioni del feto. In tal caso il profilarsi dei doveri d'informazione in
capo al medico potrebbe risentire di alcune considerazioni aggiuntive, quanto alla
determinazione del suo contenuto. Il dato di fatto dal quale è impossibile prescindere
consiste, come è chiaro, nella circostanza che il destinatario della diagnosi infausta è
la madre, pur essendo pronosticate o già evidenti delle malformazioni che interessano il
feto. Che il destinatario dell'informazione debba essere la madre non è in discussione,
che l'induzione alla speranza possa avere l'identica valenza funzionalizzata ad un
potenziale -per quanto remoto- miglioramento
delle condizioni del malato -il feto- è considerazione da valutarsi, invero, con
molta attenzione.
Il quesito che sembra sottendere tali valutazioni è il seguente: può sostenersi che la
comunicazione alla madre della diagnosi infausta ed intempestiva, per decorrenza dei
termini previsti per l'interruzione di gravidanza, integri gli estremi di un comportamento
diligente del sanitario ? L'applicazione del succitato principio di beneficialità avrebbe
fondamento quanto alla sua funzione di preservare in qualche modo l'integrità psicofisica
della madre e/o del feto ? Oppure dovrebbero comunque ritenersi prevalenti i doveri
d'informazione posti in capo al medico che ha eseguito l'esame e rilevato, seppur
intempestivamente, la malformazione esistente ?
Le osservazioni di carattere deontologico
appena accennate, aprono il varco per l'accesso a quelle più propriamente giuridiche. Che
la diagnosi intempestiva integri di per sé gli estremi della colpa professionale
-accertata nell'esempio poc'anzi illustrato- è profilo da valutarsi separatamente a
quello altrettanto importante dell'omessa comunicazione
tardiva. La scelta che si profila al medico è dunque se comunicare alla madre
l'intempestiva diagnosi infausta, ovvero se evitarle lo shock, al fine di consentirle di
portare innanzi una gravidanza senza che il turbamento psicologico possa in qualche modo
influire negativamente sugli esiti della gravidanza stessa.
La scelta è di non poca gravità, umana,
professionale, morale.
Altrettanto ardua è la valutazione che di tale comportamento è opportuno operare al fine
di verificare la condotta del sanitario in punto di responsabilità. Possono venire in
soccorso le valutazioni ricavabili dalla pregressa storia clinica e psicologica della
madre, dalle sue concrete aspettative alle prevedibili complicazioni che potevano essere
tenute in debita considerazione dal medico e comunicatele fin dall'inizio.
Ove però risulti già obiettivamente noto un quadro clinico di rilevante pericolo,
essendo la madre affetta da una patologia che comporti rischi per la gravidanza in corso,
ne consegue in capo al medico un dovere di diligente informazione preventiva, in merito ai
pericoli che tale quadro clinico poteva suggerire, commisurata allo stato delle conoscenze
mediche di tempo e di luogo.
L'errore diagnostico, indipendentemente dalla sua inescusabilità, aggrava il quadro da
valutare, inserendo un ulteriore motivo di debolezza da parte della destinataria
dell'informazione, unitamente al prodursi di una situazione di impossibilità di
intervenire sulla gravidanza in atto, per decorrenza dei termini utili per l'eventuale
interruzione della stessa. A tutto ciò si aggiunge la valutazione circa la gravità della
malformazione rilevata, in rapporto all'impatto che sulla madre la notizia può avere.
Il comportamento del medico, in punto di violazione del suo dovere d'informazione, deve
essere valutato tenendo in considerazione tutti questi elementi concreti che hanno
arricchito di profili di intensa emotività e conflittualità l'intera vicenda.
In che misura possa soccorrere la scelta del medico il principio di beneficialità e di
tutela dell'integrità psicofisica della madre è fattore da valutarsi con estremo rigore,
in considerazione anche della responsabilità del medico che ha causato l'aggravarsi del
quadro con l'intempestiva diagnosi. Tale particolare ritengo non possa essere
sottovalutato.
Il punto è se potevano ritenersi prevalenti le esigenze di tutela del normale esito del
parto, al cospetto della successiva notizia, che pur si sarebbe appalesata al momento
della nascita della piccola malformata, provocando anche in quella sede delle
ripercussioni violentissime sulla psiche della madre che, oltre al dolore per la
constatazione delle condizioni fisiche della neonata, avrebbe dovuto fare i conti con una
sensazione di tradimento delle aspettative e del rapporto di fiducia con il medico, non
meno gravi.
A sommesso avviso dello scrivente, una soluzione a tali deleterie conseguenze poteva
esserci, ed era quella di informare la madre dell'intempestiva diagnosi di lesioni
malformanti che interessavano purtroppo la piccola, impegnandosi semmai in quella sede a
fornire l'informazione nel segno della salvaguardia dell'equilibrio psicofisico della
madre, potendosi in tal modo valutare con benevolenza la mancata comunicazione della
gravità delle malformazioni stesse nella loro completezza, e mettendo comunque la madre
in condizione di assorbire, per quanto possibile, il probabile contraccolpo psicologico,
con tutti gli strumenti di assistenza che la struttura ospedaliera poteva offrire su
richiesta del medico interessato.
Appare diversamente non del tutto accettabile che la scelta dell'entità e del tempo delle
sofferenze, che immancabilmente la madre avrebbe subito, sia del tutto ed
incondizionatamente lasciata alla decisione -del medico- di non informare la madre stessa
dell'intempestiva nefasta diagnosi, impedendo di fatto a quest'ultima di esercitare, per
quanto in condizioni assai limitate, la propria autonomia e libertà di conoscenza, e
interrompendo la fiduciarietà del rapporto, tradendo in tal modo l'affidamento che la
paziente aveva impegnato nel rapporto con il suo medico.
In senso
conforme sembra essersi pronunciata la giurisprudenza, in una sentenza del Tribunale di
Roma[7], quando ha dovuto affrontare
un caso simile a quello appena descritto: in questo caso però sussiste una differenza di
rilievo consistente nella valutazione temporale dei comportamenti che si sono succeduti. I
genitori, invero, si sono rivolti ad un Centro di diagnostica prenatale, dopo la
decorrenza dei novanta giorni previsti dalla legge n. 194/1978, vale a dire allorquando la
madre, quand'anche avesse appreso, a seguito di esami non negligenti, le notevolissime malformazioni del
nascituro, non avrebbe, comunque, potuto legittimamente abortire, ne' ai sensi dell'art. 4 della legge n.
194 del 1978, ne' ai sensi dell'art. 6 della
cit. legge, dato che le pur gravissime
malformazioni, riguardando il solo apparato scheletrico ed articolare, senza intaccare la
sfera della coscienza e delle facolta' intellettive del minore, rimasta del tutto
integra, e senza comportare una
prognosi infausta circa la durata di sua vita, non sono
tali da
determinare un grave pericolo per
il benessere psicofisico della madre. E' invece risarcibile il danno
biologico cagionato ai genitori di una neonata cui non siano
state diagnosticate, in sede di negligenti esami ecografici prenatali, notevolissime
malformazioni scheletriche ed articolari.
A ragione pertanto i giudici hanno escluso la sussistenza del nesso di causalità tra il
danno subito dal feto e la condotta dei sanitari, aprendo però una breccia consistente
quanto ad altra domanda dei genitori, ossia quella relativa al risarcimento del danno, da
loro patito, in ragione della mancata informazione sull'esistenza delle malformazioni.
In questo senso appare simile la decisione in questione rispetto al caso analizzato in
precedenza, nel quale in realtà la diagnosi intempestiva è stata seguita dalla presa di
coscienza -altrettanto intempestiva- da parte del medico, delle malformazioni, sulle quali
lo stesso sanitario ha scelto di tacere, mentre nel caso analizzato dal Tribunale di Roma
non è in questione una scelta, in quanto sembra che i sanitari non abbiano potuto
effettuarla, data la negligente condotta in sede di diagnosi. In altre parole non hanno
comunicato ciò che non avevano appreso per la negligente effettuazione dell'indagine
diagnostica.
Ad ogni buon
conto il rilievo che assume maggior importanza, e che accomuna, seppur parzialmente, i
casi, è quello che attiene, da un lato alla richiesta del danno sofferto per non aver
potuto accedere alle possibilità di interruzione della gravidanza, dall'altro quello
attinente alla richiesta di risarcimento del danno patito per aver subito, al momento del
parto, uno shock certamente superiore a quello che sarebbe derivato dalla consapevolezza
delle malformazioni, ove fossero state comunicate tempestivamente. Le scelte del Tribunale
di Roma sembrano condivisibili anche sotto tale profilo, trovandovi conferma l'ipotesi
interpretativa dallo scrivente sommessamente avanzata in precedenza. I giudici affermano
infatti che:
E' invece risarcibile il danno
biologico cagionato ai genitori di una
neonata cui non siano state diagnosticate, in sede
di negligenti
esami ecografici prenatali,
notevolissime malformazioni scheletriche ed articolari.
Il mezzo attraverso il
quale la rilevanza autonoma del dovere d'informare assume significato peculiare, sussiste
proprio nel riconoscimento che i giudici danno al trauma che i genitori hanno subito per
aver appreso, solo all'atto della nascita della piccola, la notizia della triste realtà,
subendo in tal modo un contraccolpo psicologico certamente più grave di quanto non
sarebbe accaduto qualora l'informazione fosse stata tempestiva.
Ma la pronuncia appare importante anche perché fa trasparire un ulteriore profilo
d'interesse, secondo quanto affermato, in sede di commento alla pronuncia, da Dogliotti[8], lasciando intendere che sarebbe stato
risarcibile anche il danno relativo alle spese mediche e alla lesione della salute
psichica dei genitori, ove gli esami fossero stati richiesti prima della decorrenza dei
termini per l'interruzione consentita della gravidanza, concretandosi la possibilità di
scelta -anche se solo eventuale- diretta all'interruzione della gravidanza stessa.
Tuttavia a tale rilievo sembra opporsi altra argomentazione, tratta dal brano di sentenza
più sopra riportato[9], e riferita
al diniego di risarcimento delle maggiori spese sostenute dai genitori a causa della
nascita di un figlio in seguito all'infelice esito dell'intervento di interruzione di
gravidanza. Nelle pagine precedenti si è già illustrato il ragionamento della Suprema
Corte, secondo la quale, in aperto contrasto con i giudici di merito, la corretta
individuazione del bene tutelato dagli artt. 4 e 6 della L. 194/1978 è la salute della
madre, non le condizioni economiche dei genitori. Pertanto il danno risarcibile sembra
individuabile nella misura in cui vi sia stata una lesione della salute della madre.
Quest'ulteriore
osservazione consente di completare l'analisi che ho tentato di illustrare, in ordine al
caso inedito che ho descritto, potendo affermare che se l'errore diagnostico si verifica
in un periodo che consenta ancora l'intervento per interruzione della gravidanza, spetta
alla madre, che ne faccia richiesta, un risarcimento del danno sia sotto il profilo
patrimoniale -spese mediche e similari- sia sotto quello non patrimoniale, se provata,
secondo quanto detto poc'anzi, una lesione alla salute della richiedente, spettando
altresì ad entrambi i genitori un congruo risarcimento relativo al danno biologico da
essi subito per aver appreso -ignari delle malformazioni esistenti- la realtà dolorosa
della salute della figlia solo al momento della nascita, quando la loro attesa era del
tutto inconsapevole e ben lontana dal prefigurarsi un accadimento sì penoso.
Infine,
rimanendo sul terreno dell'individuazione dell'esatta dimensione del dovere
d'informazione, può essere utile sottolineare un aspetto al quale si è fatto
incidentalmente accenno in queste pagine, in merito all'interrogativo che nasce
dall'individuazione del persistere del dovere d'informazione del medico anche in presenza
di dimissioni volontarie del paziente. Ebbene la soluzione accolta è nel senso della
permanenza di tale dovere, tanto più nel caso in cui il paziente abbia deciso di
dimettersi volontariamente, creando potenzialmente una situazione di maggior rischio, a
fronte della quale la diligenza del professionista deve esprimere uno sforzo ulteriore, e
del tutto coerente con le premesse fin qui illustrate, affinché la scelta del paziente
possa essere, per quanto possibile, cosciente.
Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio
Legale Consumerlaw
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ML3 - Il
medico e la legge. Cap 11: La colpa lieve e la colpa grave (Avv. Nicola
Todeschini)
Come già anticipato nel capitolo relativo all'inquadramento
giuridico, la colpa lieve e la colpa grave rilevano soprattutto in riferimento
all'applicabilità dell'art. 2236 cod. civ. alla responsabilità professionale del medico.
I concetti qui in esame risultano pertanto intimamente connessi con quanto affermato in
tema di diligenza professionale come criterio di responsabilità e con l'individuazione
del c.d. standard di riferimento per la valutazione di adeguatezza e diligenza nella
prestazione. Infatti, secondo un principio ormai consolidato anche nell'elaborazione
giurisprudenziale[1], l'area della responsabilità per colpa lieve risulta ormai
molto estesa, giacché la tendenza restrittiva, manifestatasi nei confronti dell'area di
applicazione dell'art. 2236 cod. civ., è andata sempre più acuendosi, prima con
l'esclusione dell'applicabilità ai casi d'imprudenza e incuria, poi con l'estendersi del
patrimonio di conoscenze richieste al professionista medio.
Infatti si configura la responsabilità professionale del medico anche per colpa lieve, in
applicazione dell'art. 1176, II c. cod. civ., quando il professionista medesimo non abbia
posto in essere una prestazione <<diligente>> per fronteggiare un caso
ordinario, ossia quando si sia trovato a prestare la propria opera non per risolvere
problemi tecnici di speciale difficoltà, ma dovendo esercitare la sua professione al
cospetto di casi ordinari per affrontare i quali si ritiene necessario, nonché doveroso
ed adeguato, il bagaglio tecnico del professionista medio appartenente al medesimo settore[2].
Peraltro, come già anticipato, la responsabilità del professionista sarà, per così
dire, relegata alla colpa grave solo qualora il medesimo abbia incontratodovuto
affrontare, nell'esercizio della propria
professione, problemi tecnici di speciale difficoltà e per imperizia abbia
cagionato il danno.
Non, si badi bene, per incuria o imprudenza, ritenendosi tali condotte degne delle
valutazioni più severe e rigorose.
A questo proposito risulta chiaro come non sarebbe apparso congruo ammettere una
limitazione di responsabilità, proprio al cospetto di problemi tecnici di speciale
difficoltà, in relazione a comportamenti, quali l'incuria e l'imprudenza, che tanto meno
risultano tollerabili quanto più l'impegno diligente e l'attenzione del professionista
debbono essere richiamati dall'emersione di un caso non ordinario.
Concludendo, una valutazione più cauta della responsabilità in concomitanza con problemi
di speciale difficoltà altro non è che un correttivo di agevole comprensione, che entra
in gioco quando anche la più diligente delle prestazioni trova ostacoli di ordine tecnico
tali da travalicare le conoscenze attinenti allo standard professionale di riferimento. E'
la colpa lieve guardata attraverso l'opportuno filtro della ricorrenza dei problemi
tecnici di speciale difficoltà[3].
A titolo esemplificativo è stata ritenuta sussistente la colpa grave[4] in capo ai sanitari, medici dipendenti
di un ente
ospedaliero, in quanto, nell'attività di assistenza al
parto, hanno scelto <<una metodologia in presenza di
dati obiettivi
che ne imponevano l'esclusione>>; e ancora quando il medico curante, fattosi sostituire per un
certo periodo
da un altro medico, <<in assenza di tenuta di uno schedario degli assistiti,
non abbia
informato[5] il sostituto di
una grave
ed accertata intolleranza ad un determinato farmaco da parte di un paziente (nella specie il medico sostituto, non
avvisato dell'intolleranza, prescrisse ad una paziente il farmaco "Voltaren" rispetto al quale la stessa
aveva già
dato segni di allergia e
la cui assunzione ne provoco' la morte per
"shock" anafilattico)>>; infine quando l'odontoiatra[6], <<in presenza di problemi
tecnici di speciale difficoltà, abbia praticato un
intervento chirurgico in sito diverso da quello su cui si sarebbe dovuto svolgere e senza tenere conto
di un preesistente stato
di invalidità del paziente>>.
Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale
Consumerlaw
[Per motivi di spazio l' opera completa delle note e' scaricabile da: www.scienzaeprofessione.it ]
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OLTRE LA
PROFESSIONE: OPINIONI E PENSIERI
ML4 - La
natura alla ricerca di un equilibrio (Di Massimiliano Fanni Canelles)
Sempre più frequentemente nuovi virus compaiono nello scenario
sanitario mondiale, non è passato neanche un anno dalla nascita del coronavirus
responsabile della SARS che un altro microorganosmo in grado di infettare l'uomo ha
mietuto le sue vittime umane. Dal 1961 si è a conoscenza che il virus H5N1 infetta i
volatili provocando una malattia simile all'influenza umana. Fino a poco tempo fa non
erano stati segnalati casi di attacchi di questo virus al genere umano ma nel maggio del
1997 in un ospedale di Hong Kong si registrò il decesso di un bambino di tre anni
infettato proprio dall'H5N1. E proprio il virus H5N1 è simile al virus che negli ultimi
giorni ha provocato la morte di dieci bambini ed un adulto all'Ospedale nazionale di
Hanoi. Nel 2003 lo stesso virus ha raggiunto anche l'Europa, colpendo allevamenti di
uccelli in Belgio, Italia e in Olanda dove un veterinario è morto proprio per aver
contratto il virus. Come nel caso del coronavirus della sindrome respiratoria acuta anche
per l'H5N1 i grandi allevamenti di volatili rappresentano delle immense riserve dove i
virus possono replicarsi ad alta velocità e raggiungere la virulenza e la modificazione
genetica necessaria a permetterli di infettare una nuova specie.
Il sistema di propagazione virale chiamato "salto di specie" è infatti comune
in molte "nuove" malattie virali come l'AIDS, la Spagnola e l'Asiatica, la SARS
e la nuova influenza provocata dall'H5N1. Infatti molte delle 500 specie virali
conosciute, e chissà quante di quelle ancora sconosciute che infettano l'uomo, sono nate
da mutazioni di virus specifici per altre specie animali (pecore, polli, maiali), che
replicazione dopo replicazione acquisiscono la capacità di trasmettersi anche all'uomo
grazie a modifiche del loro patrimonio genetico. Questo fenomeno sembra maggiormente
frequente nei luoghi dove animali domestici e uomo coesistono in stretto contatto, come
avviene nei paesi del sud-est asiatico.
Il percorso evolutivo di questi virus è semplice e terrificante: grazie alla loro
capacità mutante e portati da animali selvatici infettano gli uccelli di un cortile o di
un allevamento, quindi continuando a mutare il loro patrimonio genetico passano ai maiali
che vivono spesso a stretto contatto con il pollame. Quindi grazie all'ennesima mutazione
riescono a penetrare nelle cellule dell'uomo favoriti dalla promiscuità che nei paesi
orientali è usuale avere con i suini. Il tutto si complica con il rischio di epidemie
favorite certamente dallo scarso igiene e dalle condizioni fisiche spesso debilitate delle
popolazioni del sud est asiatico ma soprattutto per l'assenza di protezioni immunitarie
specifiche contro la nuova specie virale.
Per fortuna quando avviene il salto di specie, come è successo con il virus della Sars e
come sta succedendo per l'H5N1, benché all'inizio sia molto aggressivo verso il nuovo
ospite, il virus successivamente si placa, la malattia appare progressivamente meno grave
e la sua diffusione tende a diminuire. Questo avviene probabilmente per una strategia
globale di sopravvivenza, infatti al virus non conviene uccidere tutti gli organismi che
possono ospitarlo perché morirebbe anche lui con loro. Quindi continua a mutare il
proprio patrimonio genetico anche dopo aver raggiunto l'uomo in modo da ridurre la sua
aggressività che gli è servita prima per raggiungere la specie più longeva ma che
adesso può esserli dannosa. Questa forma di "diplomazia" che i virus posseggono
evita che si formino gravi pandemie che potrebbero sterminare milioni di persone ma anche
miliardi di virus.
Grazie ai progressi nel campo medico degli ultimi 50 anni l'uomo ha il compito di evitare
che possano comparire eccezioni a questa regola come è successo nel 1918 e nel 1957 con
la Spagnola prima e l'Asiatica poi che hanno sterminato milioni di vite umane. I salti di
specie e le mutazioni frequenti rendono però complicata la messa a punto di farmaci
antivirali e la prevenzione è l'unica arma efficace che oggi possediamo. Per questo
motivo l'OMS costantemente controlla la salute degli allevamenti animali in tutto il mondo
ed al primo segnale di un nuovo focolaio di infezione ne ricerca la causa ed elimina gli
animali infetti. Solo in Italia negli ultimi 3-4 anni sono stati abbattuti per questo
motivo tra i 10 e i 12 milioni di polli e tacchini colpiti da influenza aviaria, nel resto
del mondo e soprattutto nei paesi orientali sono centinaia di milioni gli animali
soppressi sui quali si sospetta la presenza di un virus in procinto di ottenere una
mutazione genetica a lui favorevole.
Ma tutto questo potrebbe non bastare, concentrare tutta l'attenzione sulle caratteristiche
di aggressività di quel o quell'altro virus potrebbe distogliere l'attenzione al vero
nocciolo del problema. L'epidemia di SARS, l'AIDS, L'H5N1 non sono casi assestanti ma
probabilmente sono l'espressione di un fenomeno nei quali i virus sono solo le ultime
pedine di un gioco che comincia molto prima e del quale non abbiamo ancora capito le
regole. Forse la nascita di specie virali diverse è sempre avvenuto e noi non eravamo in
grado di accorgercene, oppure il "salto di specie" potrebbe essere un metodo
della Natura per frenare la crescita esponenziale della popolazione umana. Forse, ma molto
più probabilmente tutto questo è il tentativo che la Natura sta attuando per
salvaguardare la vita sulla terra. L'uomo con le sue scoperte e la sua tecnologia sta
prevaricando sulle leggi che per miliardi di anni hanno gestito l'evoluzione della vita .
La vita come noi la conosciamo è possibile infatti grazie all'equilibrio tra specie
diverse che gli scienziati chiamano biodiversità. L'uomo oggi sta alterando questo
equilibrio eliminando per profitto, per scopi bellici o per esigenze sanitarie organismi
viventi che si sono conquistati con i millenni il loro diritto alla vita. E' quindi
assolutamente "naturale" che le nicchie svuotate dall'agire dell'uomo vengano
soppiantate con nuove forme di vita. Non dobbiamo meravigliarci per questo, non dobbiamo
terrorizzarci per questo, è infatti grazie a tutto questo che la vita non cessa di
esistere.
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ML6 - LE NOVITA' DELLA LEGGE (Di Marco Venuti)
PRINCIPALI NOVITA' IN GAZZETTA UFFICIALE
mese di gennaio-febbraio 2005
|
La consultazione
dei documenti citati, come pubblicati in Gazzetta Ufficiale, è fornita
da "Medico & Leggi" di Marco Venuti: essa è libera fino al giorno
23.03.2005. Per consultarli, cliccare qui |
DATA GU |
N° |
TIPO DI
DOCUMENTO |
TITOLO |
DI CHE
TRATTA? |
03.02.05 |
27 |
Decreto del
Ministero della Salute del 02.12.04 |
Modalità per
il rilascio delle autorizzazioni all'esportazione o all'importazione di
organi e tessuti |
............. |
05.02.05 |
29 |
Provvedimento
della Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le
Province Autonome di Trento e Bolzano del 13.01.05 |
Accordo, ai
sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra
il Ministero della salute e i presidenti delle regioni e delle province
autonome, avente ad oggetto «Linee guida recanti indicazioni ai
laboratori con attività di diagnosi microbiologica e controllo ambientale
della legionellosi» |
............. |
10.02.05 |
33 |
Decreto del
Presidente della Repubblica n. 334 del 18.10.04 |
Regolamento
recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della
Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, in materia di immigrazione |
Provvedimenti
che riguardano l'assistenza sanitaria agli stranieri e il riconoscimento
di titoli accademici sanitari esteri |
17.02.05 |
39 |
Decreto del
Ministero della Salute del 30.12.04 |
Norme
procedurali per l'effettuazione dei controlli anti-doping e per la tutela
della salute, ai sensi dell'art. 3, comma 1, della legge 14 dicembre 2000,
n. 376 |
............. |
21.02.05 |
42 |
Decreto del
Ministero della Giustizia n. 336 del 16.12.04 |
Regolamento recante norme in materia di procreazione medicalmente
assistita |
............. |
22.02.05 |
43 |
Decreto del
Ministero della Salute del 17.12.04 |
Prescrizioni e condizioni di carattere generale, relative all'esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei
medicinali, con particolare riferimento a quelle ai fini del miglioramento della pratica clinica, quale parte
integrante dell'assistenza sanitaria |
............. |
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