Redazione: Luca Puccetti (webmaster), Marco Venuti
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N. 6, anno 2, Aprile 2005
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INDICE
GENERALE
PILLOLE
- Ragazzi sempre più obesi ed ipertesi
- L'uso della cannabis
aumenta il rischio di sviluppare sintomi psicotici?
- La TOS in post -
menopausa aumenta il rischio di incontinenza urinaria
-
Continua la saga dei coxib: cap. 1
- Coxib:
altri elementi, in vista del giudizio finale
- Coxib:
finalmente la soluzione (finale?)
- Coxib
vs FANS: stesso rischio se associati ai dicumarolici
- Vaccino antinfluenzale e rischio di eventi
cardiovascolari
- Statine
e markers di flogosi
- Pergolide associata a valvulopatia cardiaca
- La
morte improvvisa negli epilettici potrebbe essere dovuta ad
asistolia
- Estrogeni in post-menopausa aumentano il rischio di patologie
biliari
- ASA e
esomeprazolo meglio del clopidogrel per tollerabilità gastrointestinale
- Senza
tonsille migliora la vita dei bambini con apnee
- Clortalidone
efficace e sicuro nei diabetici
- Fluoxetina
piu' ormoni (HRT) o solo ormoni nella depressione post menopausa?
-
I
nuovi antidepressivi nella gravidanza
- La
Duloxetina nel disturbo depressivo maggiore del paziente anziano.
- Non
solo farmaci per l' incontinenza.
- News prescrittive (dalla
Gazzetta Ufficiale): (a cura di Marco Venuti):
Antiepilettici, Valproato, Flavis, Narodipina
APPROFONDIMENTI
- Il medico di famiglia allunga
la vita
MEDICINA LEGALE E
NORMATIVA SANITARIA
Di Daniele Zamperini per ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale
Università Cattolica.
- Le
responsabilita' del medico nel caso di doping
- Chi
simula malattie, e' colpevole di falso ideologico
-
Assenteista
condannata
per truffa malgrado i certificati: le valutazioni della Cassazione
- Il medico e la
legge: cap. 12 Il nesso di causalità
(Avv. Nicola Todeschini)
- Il medico e la legge: cap13
L'onere della prova: una questione aperta (Avv.
Nicola Todeschini)
PENSIERI E PAROLE
- La stupidità (di
Massimiliano Fanni Canelles)
- LE NOVITA' DELLA LEGGE (Di Marco Venuti): In
Gazzetta Ufficiale, Marzo 2005
Su www.medicoeleggi.it/pillole/freeconsult.htm
Marco Venuti mette a disposizione una serie di articoli su problemi connessi alla
prescrizione dei farmaci.
PILLOLE
A - Ragazzi sempre più obesi ed ipertesi
Un aumento della pressione arteriosa è
frequente nei bambini e negli adolescenti ed è fortemente correlato al
peso. Sono necessarie misure sanitarie urgenti per limitare le conseguenze
dell’obesità e le sue conseguenze emodinamiche.
La pressione arteriosa è stata misurata a 3.589 bambini ed adolescenti
canadesi di 9, 13 e 16 anni. Il livello medio della pressione arteriosa è
stato rispettivamente di 103/57, 113/58 e 124/61 mmHg nei ragazzi dei
gruppi di età menzionati e di 103/57, 111/60 e 114/62 mmHg nelle ragazze.
La prevalenza di una pressione sistolica media elevata è stata
rispettivamente del 12%, 22% e 30% nei ragazzi e del 14%, 19% e 17% nelle
ragazze. La pressione diastolica elevata è stata rilevata in <1% dei
soggetti esaminati. All’analisi multivariata, l’indice di massa
corporea è risultato associato ad un incremento della pressione arteriosa
sistolica e diastolica in tutte le fasce di età. Un aumento della
pressione arteriosa è frequente nei bambini e negli adolescenti ed è
fortemente correlato al peso.
Fonte: Circulation 2004; 110: 1832-1838.
segnalato da ANSISA http://www.ansisa.it
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B
- L'uso della cannabis è associato ad un
aumentato rischio di sviluppare sintomi psicotici.
Ma la relazione tra cannabis e problematiche psicologiche e comportamentali è ancora
dibattuta.
In questo studio osservazionale sono stati
reclutati 2437 soggetti (età 14-24 anni) ed è stato valutato l'uso della
cannabis, l'eventuale predisposizione a sintomi psicotici e lo sviluppo di
psicosi sia la baseline che al termine del follow-up di quattro anni.
Dopo aggiustamento per vari fattori di confondimento (età, sesso, stato
socio-economico, traumi infantili, predisposizione per psicosi e uso di altre
droghe, fumo, e alcol) si è riscontrato che l'uso di cannabis al baseline
aumentava l'incidenza di sintomi psicotici al termine del follow-up (OR 1.67,
IC 95% 1.13-2.46).
L'incidenza di psicosi però era molto più evidente nei soggetti che già al
baseline manifestavano una predisposizione a sviluppare sintomi psicotici.
Inoltre vi era una relazione dose-risposta nel senso che lo sviluppo di
psicosi era associato in modo consistente in coloro che facevano un uso
frequente della cannabis. Invece la predisposizione alla psicosi al baseline
non era un fattore predittivo di uso di cannabis.
Fonte:
Kaplan C et al. Prospective cohort study of cannabis use, predisposition for
psychosis, and psychotic symptoms in young people. BMJ 2005 Jan 1;
330:11
Commento di Renato Rossi
E' comunemente accettato che l'uso della cannabis sia associato allo sviluppo
di sintomi psicotici. Tuttavia non sappiamo se questa associazione è di tipo
causa-effetto (cioè se sia la cannabis a provocare la psicosi) o se non sia
al contrario la predisposizione alla psicosi a costituire un fattore di
rischio per l'uso di cannabis.
Questo studio suggerisce che l'uso della cannabis è associato ad un aumento
moderato di sviluppo di sintomi psicotici anche se il rischio è evidente
soprattutto nei giovani che già al baseline hanno una predisposizione alla
psicosi. D'altra parte questa predisposizione non è un fattore predittivo di
uso di cannabis in futuro e questo contrasta l'ipotesi della cosidetta
"automedicazione".
Gia' uno studio aveva evidenziato una forte associazione tra l'uso
giornaliero della cannabis e ansia e depressione nei giovani adolescenti
(BMJ 2002; 325:1195-1198).
La cannabis potrebbe anche avere degli impatti negativi sul quoziente
intellettivo?
Secondo uno studio sembra che non ci siano conseguenze negative a lungo
termine sull'intelligenza ma rimane da accertare se vi possano essere
ripercussioni su aspetti specifici come la memoria e l'attenzione (CMAJ
2002; 166: 887-891).
In realtà i possibili problemi legati all'uso della cannabis sono stati
oggetto di numerosi studi e di revisioni più o meno sistematiche e le
conclusioni sono tra loro discordanti.
La revisione sistematica più recente (Lancet 2004; 363:1579-1588) è molto
critica rispetto alle revisioni precedenti. Essa ha considerato solo studi di
popolazione longitudinali che riportassero un'associazione tra uso di sostanze
illecite da parte degli adolescenti e dei giovani e pericoli o danni
psico-sociali. La ricerca ha permesso di identificare 48 studi, 16 dei quali
di elevata qualità. Una associazione abbastanza consistente è stata trovata
tra l'uso della cannabis e un più basso raggiungimento educazionale e un
aumento dell'uso di altre sostanze illegali. Associazioni meno evidenti sono
state dimostrate tra l'uso della cannabis e problemi di tipo psicologico o
comportamentale. Secondo gli autori tutte queste associazioni sembrano essere
spiegabili in termini di meccanismi non tipo causa-effetto. In altre parole
sembra che non sia la cannabis a portare ad alterazioni psicologiche o
comportamentali; al contrario la cannabis potrebbe essere semplicemente un
testimone di queste problematiche legate ad altri fattori (culturali,
familiari, economici, ambientali, di disagio ecc.).
Questa revisione conclude che i dati disponibili non confermano l'esistenza di
una importante relazione causale tra l'uso della cannabis nei giovani e
alterazioni psicologiche e sociali, anche se non possono escludere che una
qualche relazione possa esistere. Secondo gli autori la mancanza di un
legame forte impedisce di attribuire danni importanti alla salute pubblica
derivanti dall'uso della cannabis e per trarre conclusioni diverse sarebbero
necessarie prove migliori.
Quando si parla di argomenti di questo tipo si corre il rischio di lasciarsi
prendere da convincimenti personali, sia in un senso sia nell'altro, mentre ci
si dovrebbe basare sui dati a disposizione. Purtroppo le evidenze
disponibili sono per il momento contrastanti e originano da studi di tipo
osservazionale che, per loro natura, forniscono prove più deboli rispetto
agli RCT. Naturalmente studi di intervento randomizzati e
controllati sono impensabil, per una serie ovvia di ragioni.
Non si sa bene se la relazione tra uso di cannabis e problematiche
psicologiche o comportamentali sia o meno causale. Se ci fosse una relazione
causa-effetto bisognerebbe ritenere l'uso ricreativo della cannabis un
grave problema di salute pubblica. Se fosse il contrario questo significherebbe
che le politiche repressive non hanno alcun impatto sulla salute pubblica
e anzi potrebbero in qualche misura essere più dannose che utili. Probabilmente
se ne continuerà a discutere ancora a lungo.
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C La terapia ormonale sostitutiva in post -
menopausa è associata ad un aumento del rischio di incontinenza urinaria
Lo studio cosidetto delle Infermiere è uno studio
osservazionale statunitense durato molti anni che è servito ad alcuni
ricercatori per verificare l'associazione esistente tra post-menopausa,
terapia ormonale sostitutiva e incontineza urinaria. Sono stati analizzati i
dati di quasi 40.000 donne in post-menopausa (età 50-75 anni) che all'inizio
dell'osservazione non riportavano sintomi attribuibili a incontinenza
urinaria. Dopo aver seguito le partecipanti per circa 4 anni e aver corretto
di dati per vari fattori di confondimento (fumo, isterectomia, BMI, uso di
farmaci e malattie concomitanti) gli studiosi hanno potuto determinare che
l'incidenza annuale di incontinenza urinaria era del 3% nelle donne che non
assumevano terapia ormonale sostitutiva (TOS) e de l 3,8% nelle donne in TOS.
Il rischio relativo di incontinenza urinaria era di 1,54 nelle donne che
assumevano estrogeni orali e di 1,68 nelle donne trattate con preparazioni
transdermiche. Il rischio diventava ancora più evidente considerando solo
l'insufficienza urinaria importante. Inoltre il rischio diminuiva nelle donne
che smettevano la TOS rispetto alle donne che la continuavano.
Fonte:
Grodstein F et al. Postmenopausal
hormone therapy and risk of developing urinary incontinence. Obstet Gynecol
2004;103:254-60.
Commento di Renato Rossi
Si sapeva già che l'incontineza urinaria è una situazione di riscontro
frequente nelle donne in post-menopausa. Dato che la TOS ha degli effetti
positivi su alcuni sintomi della menopausa (per esempio secchezza e atrofia
vaginale) ssi poteva ragionevolmente pensare che potesse essere utile
anche per ridurre l'incontinenza urinaria.
Questo studio fa invece cjìhiarezza dimostrando che non solo non è così,
anzi al contrario l'uso della TOS è associato ad un aumento del rischio. Il
fatto che si tratti di uno studio osservazionale può far pensare che ci sia
un bias di selezione e cioè che siano le donne che hanno incontinenza
urinaria ad usare la TOS prorpio per cercare di alleviare il loro disturbo.
Contro tale oipotesi sta la dimostrazione che l'incontinenza si riduce nelle
donne che smettono la TOS rispetto a quelle che la continuano. Dopo i
risultati dello stuio WHI, le indicazioni per la TOS si fanno dunque sempre più
limitate.
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D
Continua la saga dei coxib: cap. 1
La rivista Archives of Internal Medicine nel numero del 24 gennaio 2005
pubblica ben quattro studi sui coxib. Come mai solo ora tutto questo
zelante interesse?
Un primo studio di tipo caso-controllo evidenzia che i soggetti in
trattamento con warfarin hanno un rischio di sanguinamento
gastrointestinale quando assumono contemporaneamente un inibitore
selettivo della cox-2 che è simile a quello di chi assume warfarin +
FANS non selettivo.
Nel secondo studio si suggerisce che l'aumento degli eventi
cardiovascolari attribuito ai coxib può essere in parte legato anche
all'uso esteso che si è fatto di questi farmaci, prescritti estesamente
anche a pazienti che non avevano ragioni per trarne beneficio. Dopo la
commercializzazione dei coxib si è avuto infatti un viraggio nella
prescrizione degli antinfiammatori dai FANS tradizionali, meglio
conosciuti sotto il profilo di sicurezza, a questa nuova classe, costosa
e dal profilo di sicurezza ancora per molti versi sconosciuto. Sotto
questo aspetto si può senz'altro dire che la pressione esercitata dalle
industrie farmaceutiche si è rivelata efficace nel cambiare le modalità
prescrittive dei medici.
In un terzo studio osservazionale di coorte è stato paragonato il
rischio cardiovascolare dei coxib rispetto ai FANS non selettivi diversi
dal naproxene. I risultati di questo studio, su oltre 6.000 pazienti,
suggeriscono che i coxib non producono un aumento del rischio di eventi
cardiovascolari rispetto ai FANS non selettivi diversi dal naproxene.
Un quarto studio infine (studio CRESCENT), di tipo randomizzato e in
doppio cieco su 404 pazienti, dimostra che il rofecoxib aumenta i valori
della pressione sistolica rispetto a celecoxib e naproxene.
Infine la rivista The Lancet pubblica online il 25 gennaio 2005 uno
studio caso-controllo da cui risulta che il rischio di eventi coronarici
gravi del rofecoxib è di 1,47 rispetto al celecoxib per dosaggi di 25
mg/die o inferiori e di 3,58 per dosaggi di rofecoxib superiori ai 25
mg/die. Lo studio smentisce anche l'ipotesi che il naproxene possa avere
un effetto coronarico protettivo: OR rispetto agli altri FANS di 1,14 (
95%CI 1.00-1.30, p = 0.05).
Secondo gli autori il rofecoxib avrebbe provocato, solo negli USA, tra
gli 88.000 e i 140.000 eventi coronarici.
Fonte:
Arch Intern Med. 2005;165:158-160, 161-168, 171-177, 181-186, 189-192
Graham DJ et al. Risk of acute myocardial infarction and sudden cardiac
death in patients treated with cyclo-oxygenase 2 selective and
non-selective non-steroidal anti-inflammatory drugs: nested case-control
study
Lancet. Published online January 25, 2005.
Commento di Renato Rossi
Dopo il ritiro dal commercio del rofecoxib nell'ottobre del 2004 le
riviste mediche sembrano aver scoperto un nuovo filone da sfruttare fino
all'esaurimento e continuano a sfornare studi sui coxib.
La stampa profana ha ripreso con ampio risalto la vicenda. Per esempio
il quotidiano La Repubblica del 25 gennaio 2005 titola in prima pagina
"USA, inchiesta di Lancet sul farmaco antinfiammatorio. Il Vioxx
responsabile di 140.000 morti".
Una riflessione su questa vicenda è sicuramente necessaria. Vanno
richiamati ad una maggior attenzione verso farmaci di nuova immissione
sia le autorità regolatorie che i medici e bisogna auspicare che in
futuro i ricercatori possano evitare il ripetersi di simili eventualità.
Inoltre i controlli post-marketing dovrebbero funzionare più
efficacemente mentre FDA ed EMEA, preposte alla autorizzazione della
immissione in commercio dei nuovi farmaci, dovrebbero essere più rigide
e meno rapide nelle loro decisioni.
Ma viene spontaneo anche chiedersi dove fossero tutti gli esperti quando
qualche Cassandra, già nel 2000-2001, in epoche non sospette,
richiamava alla cautela nell'uso di questi farmaci e ricordava che lo
studio VIGOR mostrava un aumento degli eventi cardiovascolari legato
all'uso di rofecoxib.
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E -
Coxib:
altri elementi, in vista del giudizio finale
In New England Journal of Medicine pubblica anticipatamente i
risultati di tre studi sui coxib.
Il primo è lo studio APPROVe (Adenomatous Polyp Prevention on Vioxx
trial) che ha portato al ritiro del rofecoxib dal mercato nel settembre
2004. In questo lavoro multicentrico in doppio cieco sono stati arruolati
2.586 pazienti con storia di adenomi del colon-retto, randomizzati a
ricevere rofecoxib 25 mg/die o placebo per tre anni. Durante un' analisi
ad interim dei dati effettuata da un comitato esterno si evidenziò che si
erano verificati eventi trombotici in 46 pazienti del gruppo rofecoxib e
26 nel gruppo placebo (1,50 eventi per 100 pazienti/anno vs 0,78 eventi
per 100 pazienti/anno; RR 1,92; 95%CI 1,19-3,11; P = 0,008). L'aumento del
rischio cardiovascolare diventava evidente dopo 18 mesi di
trattamento, soprattutto a causa di un aumento degli infarti miocardici e
delle ischemie cerebrali.
Nel secondo studio, detto APC (Adenoma Prevention with Celecoxib), sono
stati arruolati 2.035 pazienti con una storia di neoplasia colorettale,
randomizzati a placebo, celecoxib 200 mgx2/die e celecoxib 400 mgx2/die.
Il
follow-up fu di 2,8-3,1 anni. L'end point composto (morte
cardiovascolare, infarto miocardico, stroke, scompenso cardiaco) si
verificò nell'1% del gruppo placebo, nel 2,3% del gruppo celecoxib 200
mgx2 e nel 3,4% del gruppo celecoxib 400 mgx2. Gli autori di questo studio
notano che il trial in realtà non aveva abbastanza potenza statistica per
valutare il rischio cardiovascolare per cui questi dati dovrebbero essere
interpretati con cautela. In ogni caso venne deciso di interrompere
anticipatamente lo studio.
Il terzo studio si proponeva di valutare l'efficacia e la sicurezza di due
coxib (valdecoxib e parecoxib) nel trattamento del dolore post-operatorio
in 1.671 pazienti sottoposti a by-pass coronarico. Al follow-up dopo 30
giorni i gruppi trattati con coxib avevano un rischio di eventi
cardiovascolari (inclusi infarto miocardico, arresto cardiaco, stroke ed
embolia polmonare) del 2,0% rispetto allo 0,5% del gruppo trattato con
placebo.
Fonte:
N Engl J Med 2005, Published online Feb 15.
Commento di Renato Rossi
Mentre in questi giorni la FDA ha dato mandato ad un comitato di esperti
di valutare tutti i dati sulla sicurezza dei coxib (il responso è
previsto a breve), la pubblicazione anticipata di questi tre studi da
parte del New England (i cui risultati peraltro erano già stati resi
noti) porta ulteriori elementi a favore dell'ipotesi che sia l'intera
classe dei coxib ad avere un effetto pro-trombotico. Pur essendo vero che
l'eccesso di rischio cardiovascolare sembra legato ad un uso prolungato di
questi farmaci, i risultati dello studio dopo by-pass coronarico mostrano
un preoccupante aumento degli eventi anche per terapie di breve durata.
Ci si chiede quindi da una parte se le autorità regolatorie abbiano fatto
tutta la loro parte prima di autorizzare la commercializzazione di questi
nuovi farmaci: forse è ora di rivedere le regole che permettono
l'immissione
nel mercato di principi farmacologici nuovi, rendendole più severe.
D'altra parte per le indicazioni per cui sono approvati i coxib esistono
già molti farmaci usati da anni (aspirina, paracetamolo, FANS non
selettivi) il cui profilo di rischio dovrebbe essere più conosciuto. Uso
il condizionale
in quanto recenti dati sul naproxene (di cui si è riferito in una pillola
di qualche settimana fa) pongono la questione se veramente sia nota
l'effettiva sicurezza dei FANS intesi come classe. E' inoltre
recentissima la notizia di reazioni cutanee fatali con l'uso di ibuprofen
(www.medscape.com/viewarticle/499537).
Trarre una conclusione per ora non è facile. In attesa del giudizo finale
degli esperti si può raccomandare cautela nell'uso non solo dei coxib ma
dei FANS in generale rispettando le controindicazioni e avendo
l'avvertenza di
usarli a dosi basse e per periodi brevi, specialmente negli anziani con
patologie cardiovascolari e/o con riduzione della funzionalità renale e
ricordando che buoni risultati nel controllo del dolore spesso si
ottengono con il paracetamolo (associato o meno alla codeina).
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F - Coxib:
finalmente la soluzione (finale?)
Alla fine di una camera di consiglio che deve essere stata molto
travagliata la FDA ha emesso il suo verdetto: gli inibitori della
ciclo-ossigenasi 2 possono continuare a rimanere in commercio e ad essere
prescritti dai medici perchè, anche se gravati da un aumento degli effetti
cardiovascolari, i loro benefici sulla salute superano i rischi. Inoltre, a
sorpresa, la FDA ha dato parere favorevole alla reintroduzione in commercio
del rofecoxib, anche se la commissione di esperti si è praticamente
spaccata in due tra favorevoli e contrari .
Fonte: segnalato da Doctornews.
Commento di Renato Rossi
La decisione dell'ente americano arriva dopo appena due giorni dal
pronunciamento dell'EMEA (fatto proprio dall'AIFA) secondo il quale i coxib
devono avere importanti limitazioni al loro uso: non bisogna prescriverli ai
pazienti cardiopatici o a rischio cardiovascolare, vanno somministrati alla
dose più bassa possibile e per il periodo più breve.
Insomma, come era accaduto per le linee guida sull'ipertensione, le due
sponde dell'Atlantico sembrano essere adesso un pò più lontane. Sarà
interessante vedere come reagiranno gli enti regolatori europei alle
decisioni della FDA.
Nella vicenda vi è un risvolto poco chiaro. David Graham, autore di un
recente studio pubblicato su Lancet, di cui avevamo riferito in una pillola
precedente (Lancet 2005 Feb 6; 365:475-81), doveva presentare alla
commissione della FDA, riunita in assise, i dati relativi a studi non ancora
pubblicati sui coxib. Ma pochi giorni fa ha reso noto che non li presenterà
avendo ricevuto una e-mail da parte dei suoi superiori che la presentazione
di questi dati sarebbe avvenuta a suo rischio. (Medscape News, 2005 Feb 15).
Il tono usato nella e-mail ricevuta, dice Grahan, è quello che si usa di
solito per gli insubordinati. Graham voleva
presentare i dati del California's Medicaid Program in cui sono stati
studiati più di 15.000 infartuati. Un portavoce della FDA ha
affermato che la decisione se presentare o meno i nuovi risultati spettava a
Graham stesso. Alla fine comunque Graham ha tenuto la sua relazione
affermando che a suo parere la tossicità cardiovascolare dei coxib è un
effetto classe, che appare evidente soprattutto con le dosi più elevate, ma
che ogni farmaco va valutato singolarmente (Medscape News, 2005 Feb 17).
Francamente, da qualsiasi parte stia la ragione, una vicenda non proprio
chiara. Sembra quasi che la medicina basata sulle evidenze sia morta e
sepolta e che gli studi clinici acquistino valenze diverse a seconda di come
li si interpreta. Non altrimenti si può giudicare la decisione della ditta
produttrice di ritirare il rofecoxib (contro ogni suo interesse commerciale,
tanto che il valore delle sue azioni alla borsa americana si è quasi
dimezzato) e quella contrastante della FDA di reintrodurlo.
Nel frattempo come dovrebbero comportarsi i medici? Penso non sia difficile
prevedere che se anche la ditta produttrice decidesse di immettere di nuovo
in commercio il rofecoxib gli operatori sanitari e i pazienti stessi (che
nell'epoca di internet e dell'informazione globale sono venuti a conoscenza
della questione quasi in tempo reale) avranno molte difficoltà ad usarlo. E
poi la ditta sarà comunque pronta a rischiare nuove e più clamorose azioni
legali intentate dai pazienti che si sentiranno danneggiati dal farmaco?
All'uscita della metropolitana di New York nelle settimane scorse c'erano
cartelloni pubblicitari che invitavano i pazienti che avevano usato il Vioxx
a rivolgersi a studi legali per studiare il da farsi. Aberrazioni americane,
si dirà. Dal canto nostro, però, credo che suggerire cautela sia d'obbligo
adottando per ora le misure suggerite dall'EMEA (tra l'altro in Italia
l'uso dei coxib a carico del SSN deve ubbidire all'ulteriore restrizione
della nota
66).
Tutta la vicenda lascia abbastanza sconcertati e non si possono escludere
ulteriori sviluppi e colpi di scena.
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G -
Coxib
vs FANS: stesso rischio se associati ai dicumarolici
I pazienti che assumono Coxib e anticoagulanti presentano un rischio
aumentato di ospedalizzazioni per emorragia gastroentrica al pari di
quelli che assumono contemporaneamente FANS e dicumarolici.
Si tratta di uno studio retrospettivo a disegno annidato in cui sono stati
considerati i pazienti dell'Ontario di 65 anni o più, intrattamento con
anticoagulanti orali. Dall'esame delle prescrizioni ricevute prima del
ricovero. Dei 98821 pazienti che erano in trattamento con dicumarolici 361
(0,3%) sono stati ammessi per emorragia GI. Questi pazienti rispetto a
quelli in TAO, ma senza complicanze GI, avevano più frequentemente
assunto prima dell'ospedalizzazione FANS (OR: 1.9; 95% [CI], 1.4-3.7),
celecoxib (OR: 1.7; 95% CI, 1.2-3.6), o rofecoxib (OR: 2.4; 95% CI,
1.7-3.6) . Conclusioni: sia i FANS che i coxib in misura simile aumentano
il rischio di emorragia gastroenterica se somministrati a pazienti anziani
in trattamento con anticoagulanti orali.
Fonte: Arch Intern Med. 2005;165:189-192
Link: http://archinte.ama-assn.org/cgi/content/abstract/165/2/189
Commento di Luca Puccetti
Questo studio, sia pur retrospettivo, sembra confermare che, almeno in
alcune categorie di pazienti i coxib non sono più sicuri dei FANS
limitatamente al rischio di insorgenza di eventi clinici maggiori. Inoltre
le differenze tra Rofecoxib e Celecoxib in merito all'interferenza con i
cumarolici non sembrano influenzare significativamente i risultati. Questo
dato, sia pur parziale e non inferente un' evidenza di primissimo livello,
tuttavia, per la rilevanza del campione esaminato, induce a considerare
molto discutibile l'attuale regolamentazione della prescrivibilità dei
coxib in associazione ad inibitori di pompa, pur in assenza di studi
sull'impiego degli IPP nella prevenzione degli eventi GI in corso di TAO
negli anziani
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H
- Vaccino antinfluenzale e rischio di eventi
cardiovascolari
Il rischio di eventi cardiovascolari aumenta dopo una
malattia infettiva ma non dopo la vaccinazione antinfluenzale e
antipneumococcica.
Alcuni autori hanno esaminato l'United Kingdom General Practice Research
Database, che registra i dati sanitari di più di 5 milioni di pazienti,
per testare l'ipotesi se dopo una vaccinazione antinfluenzale o dopo una
malattia infettiva aumentasse il rischio di infarto miocardico o di ictus.
Lo studio ha permesso di escludere che vi sia un aumento del rischio dopo
vaccinazione antinfluenzale, antipneumococcica o antitetanica mentre ha
evidenziato tale aumento in seguito ad una infezione delle vie
respiratorie, specialmente nei primi tre giorni. L'aumento del rischio di
infarto è di quasi 5 volte mentre per l'ictus è di circa 3 volte. Il
rischio aumenta anche in corso di infezione urinaria, ma in modo meno
pronunciato.
Smeeth L et al. Risk of Myocardial Infarction and Stroke after Acute
Infection or Vaccination
N Engl J Med 2004 Dec 16; 351:2611-2618
Commento
Lo studio conferma l'ipotesi che le malattie infetttive hanno un effetto
protrombotico, probabilmente perchè innescano un processo infiammatorio.
Dati tranquillizzanti invece per quanto riguarda le vaccinazioni. In
particolare la vaccinazione antinfluenzale e antipneumococcica (spesso
somministrate contemporaneamente a soggetti anziani o a rischio) non sono
associate ad un aumento del rischio cardiovascolare.
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I -Statine
e markers di flogosi
Le statine sono in grado di agire positivamente sui
marker della flogosi riducendo la PCR e gli esiti clinici in pazienti ad
elevato rischio coronarico.
Alcuni studi hanno dimostrato che le statine ad alto
dosaggio in soggetti ad elevato rischio coronarico (per esempio nel caso
di sindromi coronariche acute o aterosclerosi coronarica documentata)
sono utili a ridurre gli outcomes (Cannon CP et al. Comparison of
Intensive and Moderate Lipid Lowering with Statins after Acute Coronary
Syndromes. N Engl J Med 2004 April 8; 350:1495-1504. Studio PROVE-IT) e
la progressione dell'aterosclerosi coronarica (Nissen SE et al. for the
REVERSAL Investigators. Effect of Intensive Compared With Moderate
Lipid-Lowering Therapy on Progression of Coronary Atherosclerosis. A
Randomized Controlled Trial .JAMA. 2004 March 3; 291:1071-1080).
Ora un'analisi dei due studi ha messo in relazione l'uso delle statine,
i livelli di LDL e di PCR, gli outcomes clinici e la progressione dell'aterosclerosi.
Nello studio PROVE-IT mostravano una più bassa incidenza di eventi
clinici i pazienti che avevano raggiunto un valore di LDL inferiore a 70
mg/dL rispetto a chi aveva un LDL più elevato. Un beneficio tutto
sommato analogo però si è osservato anche in coloro che avevano valori
di PCR inferiori a 2 mg/L rispetto a coloro che avevano valori superiori
e questo indipendentemente dal livello di LDL raggiunto e dal tipo di
statina usata (atorvastatina o pravastatina). In realtà il gruppo
trattato con atorvastatina (80 mg/die) raggiungeva più frequentemente
questi valori target di LDL e di PCR rispetto a chi era trattato
con pravastatina (40 mg/die), ma quello che conta sembra non tanto in sè
la statina usata e il suo dosaggio e neppure in sè i valori di LDL
raggiunti, quanto la riduzione della PCR ottenuta. Per esempio nei
soggetti che avevano a fine studio un LDL inferiore a 70 mg/dL e
una PCR superiore a 2 mg/L il tasso di eventi era di 3,1 per 100
persone-anno mentre era di 2,4 per chi aveva raggiunto una PCR inferiore
a 2 mg/L. Nello stesso tempo tra coloro che avevano un valore di LDL a
fine studio superiore a 70 mg/dL la frequenza di eventi era di 4,6 per
100 persone-anno per chi aveva una PCR maggiore di 2 mg/dL e di 3,2 per
chi aveva una PCR inferiore a 2 mg/dL.
Nello studio REVERSAL si è notato che chi aveva una maggior riduzione
della PCR e del colesterolo LDL aveva una minor progressione della
aterosclerosi coronarica valutata tramite ultrasuonografia
intra-vascolare e questo risultato veniva raggiunto soprattutto da chi
era posto in terapia con alte dosi di statina.
Fonte:
Ridker PM et al. for the Pravastatin or Atorvastatin Evaluation
and Infection Therapy–Thrombolysis in Myocardial Infarction 22 (PROVE
IT–TIMI 22) Investigators . C-Reactive Protein Levels and Outcomes
after Statin Therapy. N Engl J Med 2005 Jan 6; 352:20-28
Nissen SE et al. for the Reversal of Atherosclerosis with
Aggressive Lipid Lowering (REVERSAL) Investigators
Statin Therapy, LDL Cholesterol, C-Reactive Protein, and Coronary Artery
Disease. N Engl J Med 2005 Jan 6; 352:29-38
Commento di Renato Rossi
Si sa che vi è un'associazione positiva fra valori elevati di PCR e
rischio coronarico. Dato che la PCR è un indice di flogosi si è fatta
strada l'ipotesi che l'aterosclerosi sia in qualche modo una malattia di
tipo infiammatorio e alcune linee guida sono arrivate a proporre,
insieme alla valutazione dei classici fattori di rischio universamente
usati, il dosaggio della PCR (con metodica ultrasensibile) per meglio
stratificare i pazienti, soprattutto quelli che hanno un rischio
valutato con le carte tra il 10% e il 20%. Si sa anche che le statine
hanno degli effetti pleiotropici e antinfiammmatori oltre a quelli
più noti di riduzione del colesterolo LDL.
Questi due studi confermano che le statine sono in grado di esercitare
un'influenza positiva sui markers della flogosi riducendo i valori della
PCR. Addirittura sembra che la riduzione della PCR sia importante tanto
quanto la riduzione del colesterolo LDL, indipendentemente dalla dose e
dal tipo di statina usata. I maggiori benefici, comunque, si
ottengono quando si riesce a ridurre in modo cospicuo sia LDL e PCR,
cosa che si riesce a fare soprattutto con un dosaggio elevato di
farmaco.
Forse in un prossimo futuro, nei pazienti in trattamento con statine,
per valutare l'efficacia della terapia dovremo monitorare non solo il
colesterolo LDL ma anche la PCR.
Infine un richiamo alla cautela: questi risultati sono stati ottenuti in
pazienti altamente selezionati e a rischio molto elevato, non è noto se
si possa automaticamente estenderli ai pazienti a rischio meno elevato
della prevenzione primaria.
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L
- Pergolide e valvulopatia cardiaca
L'uso della pergolide può essere associato
alla comparsa di una valvulopatia cardiaca la cui incidenza al momento
non può essere stimata con esattezza.
La Pergolide è una sostanza ad azione agonista dopaminergica
autorizzata per il trattamento del morbo di Parkinson ed è il principio
attivo della specialità medicinale Nopar® (Eli Lilly).
L'uso della pergolide può essere associato alla comparsa di una
valvulopatia cardiaca la cui incidenza al momento non può essere
stimata con esattezza.
Tuttavia, la possibilità di insorgenza di questo effetto indesiderato
richiede che la pergolide sia utilizzata come farmaco di seconda scelta
solo dopo il fallimento di altri agenti terapeutici.
Il Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto e il Foglietto
Illustrativo sono stati modificati al fine di includere la restrizione
delle indicazioni e nuove avvertenze e precauzioni d'uso.
L'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) in accordo con Eli Lilly, titolare
dell'AIC, sulla base di queste nuove evidenze, ha deciso di divulgare
una Nota Informativa Importante (Dear Doctor Letter) rivolta ai medici
per assicurare un corretto uso del farmaco. Per una completa
informazione sono disponibili on-line il testo completo della Nota
Informativa Importante e il testo delle modifiche apportate al Riassunto
delle Caratteristiche del Prodotto.
Fonte: AIFA
Comunicato: http://www.agenziafarmaco.it/documenti/pergolide_ddl_final.pdf
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M - La
morte cardiaca improvvisa negli epilettici potrebbe essere dovuta ad
asistolia
Chi soffre di epilessia ha un aumentato
rischio di morte improvvisa ma le cause non sono ancora ben stabilite
anche se probabilmente le aritmie cardiache giocano un ruolo importante.
In uno studio prospettico a 20
pazienti affetti da epilessia focale resistente ai trattamenti è stato messo
un device che registrava sia gli episodi di bradicardia (frequenza <
40 bpm) sia quelli di tachicardia (frequenza > 140 bpm).
I dati registrati sono stati confrontati con gli episodi convulsivi. In
16 pazienti, durante le convulsioni, la frequenza media cardiaca era
superiore a 100 bpm. In sette pazienti fu possibile registrare un
episodio di bradicadia, ma questi episodi furono poco frequenti
rappresentando solo il 2,1% di tutti gli eventi registrati. A 4
pazienti, a causa di periodi di bradicardia e di asistolia, venne
impiantato un pace-maker e 3 di essi ebbero una asistolia potenzialmente
fatale.
Fonte: Rugg-Gunn FJ et al. . Cardiac
arrhythmias in focal epilepsy: a prospective long-term study
Lancet. 2004 Dec 18/25; 364:2212-2219
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N - Gli estrogeni nelle donne
in post-menopausa comportano un aumento del rischio di patologie del
tratto biliare
L'analisi dei risultati del WHI ha
permesso di ricavare molti dati e fra questi anche l'effetto della
terapia con estrogeni sul rischio di sviluppare una calcolosi della
colecisti. L'incidenza di eventi di qualsiasi tipo collegati con la
colecisti era di 78 eventi per 10.000 donne/anno nel gruppo trattato
contro 47 per 10.000/anno nel gruppo placebo nel braccio del WHI in cui
si usano solo estrogeni (donne isterectomizzate) e di 55 vs 35 nelle
donne del braccio WHI in cui si usavano estrogeni associati al
progestinico (donne non isterectomizzate). In entrambi i bracci la
terapia con estrogeni comportava un aumento del rischio di colecistite,
di litiasi e di intervento chirurgico sulla colecisti.
Fonte: Cirillo DJ et al. Effect of
Estrogen Therapy on Gallbladder Disease
JAMA. 2005 Jan 19; 293:330-339.
Commento:
Già si sospettava che la terapia ormonale sostitutiva con estrogeni
portasse ad un aumento del rischio di colecistopatie, di litiasi biliare
e di interventi chirurgici sulla coleciti, ma i dati derivavano
soprattutto da studi di tipo osservazionale.
I risultati del WHI, uno studio di tipo randomizzato e controllato,
confermano che l'uso degli estrogeni nelle donne in post-menopausa
comporta un'aumentata incidenza di patologie delle vie biliari e di
interventi chirurgici collegati.
Quando si deve decidere se somministrare o meno una terapia ormonale
sostitutiva bisognerà tener conto anche di questi aspetti negativi.
Sempre più il ruolo della TOS appare limitato all'uso per brevi periodi
nelle donne che manifestano disturbi importanti della menopausa che
comportini uno scadimento della qualità della vita.
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O - ASA e
esomeprazolo meglio del clopidogrel per tollerabilità gastrointestinale
L'aggiunta di esomeprazolo riduce molto di più il rischio di recidiva
rispetto alla sostituzione dell'ASA con clopidogrel in pazienti
vasculopatici HP negativi con pregressa emorragia gastroenterica da ASA.
Sono stati considerati pazienti vasculopatici con storia di
sanguinamento gastroenterico da ASA. Dopo la guarigione dell'ulcera 320
pazienti HP negativi sono stati arruolati nello studio. Tra questi 161
sono stati messi in trattamento con clopidogrel 75 mg/die e 159 con 80
mg/die di aspirina pìù 20 mg/die di esomeprazolo. L'end point
predefinito era rappresentato dalla recidiva dell' emorragia
gastroenterica causata da ulcera. La recidiva del sanguinamento è stata
osservata in 13 pazienti tra quelli trattati con clopidogrel ed in 1 tra
quelli trattati con ASA e esomeprazolo. L'incidenza cumulativa annuale
del sanguinamento GI è stata dell' 8.6 percento (95 CI: 4.1 - 13.1
percento) nel gruppo clopidogrel e dello 0.7 percento (95 CI: 0 - 2.0
percento) in quello ASA e esomeprazolo (differenza: 7.9 punti
percentuali; 95 CI per la diferenza: 3.4 - 12.4; P=0.001).
Conclusioni: Le evidenze dello studio dimostrano che nei pazienti
vasculopatici HP negativi con pregresso sanguinamento GI da ASA, la
prevenzione secondaria con l'aggiunta di esomeprazolo all'ASA è
nettamente superiore alla sostituzione dell'ASA con clopidogrel.
Pertanto questi risultati non supportano le attuali linee guida
americane sulla prevenzione secondaria del sanguinamento GI da ASA.
Fonte: NEJM, 2005; 352:238-244.
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P - Senza
tonsille migliora la vita dei bambini con apnee
La qualità di vita migliora nei bambini che vengono sottoposti a
adenotonsillectomia per apnee notturne ostruttive.
Mediante appositi questionari è stata valutata la qualità della vita di 42
bambini con apnee notturne prima e dopo adenotonsillectomia rispetto a un
gruppo di controllo di 41 bambini sottoposti al medesimo intervento per
motivi non dipendenti dal russamento. I disturbi del respiro nel sonno nei
bambini dipendono spesso da un’ipertrofia adenotonsillare.
L’asportazione di tonsille e adenoidi porta alla guarigione nell’85-95
per cento dei casi.
Fonte: Arch Otolaryngol Head Neck Surg. 2005;131:52-57
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Q - Clortalidone
efficace e sicuro nei diabetici
Nello studio SHEP (Systolic Hypertension in the Elderly Program)
si dimostrò che il trattamento dell'ipertensione sistolica isolata
nell'anziano è utile a ridurre le complicanze dell'ipertensione. Viene
ora pubblicata una ulteriore analisi del trial, con follow-up a 14,3
anni, nella quale è stata valutata la mortalità sia nel gruppo
trattato con clortalidone che nel gruppo trattato con placebo in
relazione alla presenza o allo sviluppo di diabete. La mortalità
globale era del 19,0% nel gruppo clortalidone e del 21,7% nel gruppo
placebo. Tra i pazienti diabetici randomizzati a clortalidone la
mortalità totale era del 20% più bassa che nel gruppo dei diabetici
randomizzati a placebo. Inoltre il diabete comparso durante la terapia
diuretica era lieve e generalmente non associato ad un aumento della
mortalità.
Fonte: Am J Cardiol 2005;95:29-35.
Commento di Renato Rossi
Le ultime linee guida americane (JNC 7) consigliano, come farmaci di
prima scelta nell'ipertensione non complicata, i diuretici tiazidici,
eventualmente associati alle altre classi di antipertensivi. Tuttavia
vari studi, in particolare lo studio ALLHAT, hanno evidenziato che i
pazienti trattati con diuretici hanno un aumento del rischio di
insorgenza di diabete. In realtà questo non si traduce poi in outcomes
peggiori per cui si può ipotizzare che si tratti solo di un effetto
"cosmetico" dei tiazidici. Qualcuno però ha fatto notare che
gli studi hanno un follow-up troppo breve per evidenziare complicanze
legate a questi casi di diabete di nuova insorgenza. Altri richiamano ad
un certa attenzione nella prescrizione di tiazidici ai diabetici.
I risultati a lungo termine dello studio SHEP sono tranquillizzanti
sotto tutti questi aspetti perchè il clortalidone si è dimostrato
efficace anche nei diabetici. Inoltre i casi di diabete insorti durante
la terapia con il diuretico sembrano di scarsa importanza clinica non
essendo gravati da un aumento di mortalità.
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R Fluoxetina
piu' ormoni (HRT) o solo ormoni nella depressione post menopausa?
L’obiettivo
dello studio è stato quello di comparare gli effetti tra
un trattamento combinato fluoxetina-HRT e il trattamento con soli ormoni.
Per verificare gli effetti dei due trattamenti 54 donne in menopausa
affetti da sindrome depressiva sono state randomizzate in due
gruppi.
Un gruppo e' stato trattato con fluoxetina più trattamento ormonale
(hanno ricevuto, nello specifico, fluoxetina (20mg, qd, po)e un uso
ciclico di estrogeni (0.625 mg)e medroxyprogesterone 5 mg).
Un gruppo e' stato trattato con soli ormoni (sono stati somministrati,
ciclicamente, estrogeni (0.625 mg) e medroxyprogesterone acetato, 5 mg.).
A tutti i soggetti dello studio è stato somministrato il “Hamilton
Depression score” (HAMD) e il “Kupperman menopause index” (KMI) alla
settimana 0,1,2,3,4,6,e 8 del trattamento.
All’inizio del trattamento non sono state rilevate differenze
significative tra i due gruppi, che apparivano omogenei e
confrontabili.
Con il passare del tempo la differenza tra i due gruppo aumentava invece
di significatività: il "tasso di salute" dei due gruppi
divergeva notevolmente : il
gruppo di soggetti in trattamento misto e quello trattato con soli ormoni
presentavano rispettivamente un tasso del 92% e del 48%.
Concludendo: e' utile nella depressione post-menopausa, associare
fluoxetina al trattamento ormonale in quanto il tasso di miglioramento
clinico nelle terapie combinate e' significativamente maggiore rispetto al
trattamento con soli ormoni.
Guido Zamperini
Fonte: Zhonghua Fu Chan Ke Za Zhi. 2004 Jul;39(7):461-4.
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S I
nuovi antidepressivi nella gravidanza
La
scelta di un antidepressivo in caso di gravidanza e' un problema di non
facile soluzione, in quanto la depressione e' una condizione che merita la
massima attenzione da parte del medico, sia nei soggetti gia' conclamati
che in quelli in cui si possa temere lo sviluppo di una forma cosiddetta
"post partum". Il proble si complica ulteriormente alloche'
vengano presi in esame i farmaci di nuova o recente introduzione.
Sono stati esaminati circa 600 casi seguiti dal centro del Dipartimento di
Medicina di Famiglia, School of Medicine, Karadeniz Technical University.
A 21 di questi soggetti sono stati somministrati antidepressivi di nuova
concezione, come ad esempio Venlafaxina, mirtazepina, nefazodone.
Nello specifico, nel primo trimestre di gravidanza, a 10 soggetti è stata
somministrata venlafaxina, ad un soggetto è stata somministrata
venlafaxina insieme a mirtazapina, ad 8 casi è stata somministrata solo
la mirtazapina, o mirtazepina unita ad altri farmaci diversi, a 2 persone
è stato somministrato nefazodone.
Dei 21 casi, 17 (80,9%) ha avuto bambini in salute, 3 (14,3%) ha deciso di
interrompere la gravidanza, e 1 (4,8%) aborto spontaneo è stato osservato
in un caso dove era stato somministrato mirtazapina, alprazolam, diazepam
e trifluoperazina.
Non sono state osservate anormalità congenite e relative allo sviluppo
nei bambini in un lasso di tempo di 12 mesi.
La scarsa numerosita' dello studio non permette di trarre conclusioni
definitive, ma la somministrazione di antidepressivi di ultima generazione
non sembra associato a un particolare rischio di teratogenicita'.
Guido Zamperini
Fonte: Reprod Toxicol. 2004 Dec;19(2):235-8.
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T La
Duloxetina nel disturbo depressivo maggiore del paziente anziano.
L’efficacia
della duloxetina, un inibitore della serotonina e della norepinefrina, è
stata valutata all’interno di uno studio finalizzato al trattamento del
disturbo depressivo maggiore e del dolore ad esso collegato nei pazienti
di età uguale o maggiore a 55 anni.
Il metodo utilizzato per testare l’efficacia del prodotto è stato
quello di strutturare uno studio multicentrico a gruppi paralleli, nei
quali i pazienti venivano randomizzati in doppio cieco fra la
somministrazione della duloxetina (60 mg/die N=47) e la somministrazione
di un placebo (N=43) per 9 settimane.
L' evoluzione della condizione depressiva è stato misurata mediante
apposito test (Ham-D-17) mentre il dolore è stato monitorato mediante le
classiche scale visuo-analogiche del dolore.
Gli effetti collaterali sui pazienti con 55 o più anni sono stati
ricavati da 6 studi randomizzati in doppio cieco, nei quali i pazienti
depressi ricevevano placebo (N=90) e duloxetina (40mg/die; 120mg/die
N=119).
RISULTATI: La combinazione dei risultati dei due studi ha mostrato che la
duloxetina è superiore al placebo. La possibilità stimata di remissione
della condizione depressiva dei pazienti trattati con duloxetina (44.1) è
risultata nettamente superiore al placebo (16.1). La riduzione del dolore
è anch’essa superiore nel gruppo trattato che in quello non trattato.
Guido Zamperini
Fonte: Am J Geriatr psichiatry. 2005 Mar;13(13):227-35
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U Non
solo farmaci per l' incontinenza.
Altre soluzioni
per risolvere un antipatico problema
In risposta alla crescita della popolazione anziana con
incontinenza le Aziende farmaceutiche stanno sviluppando nuovi medicinali
indirizzati al trattamento dell’incontinenza stessa.
Prima di prescrivere un farmaco contro l’incontinenza, però, sarebbe
utile che il medico determinasse meglio sia la natura che la causa del
problema. Una valutazione accurata di questi elementi può, infatti,
indirizzare a trattamenti diversi, mirati specificatamente al tipo di
incontinenza del paziente.
Uno dei migliori trattamenti alternativo ai farmaci e' ad esempio, per
alcuni tipi di incontinenza, la terapia "comportamentista",
basata sull’allenamento del paziente ad abituarsi ad un corretto uso
della muscolatura pelvica, al fine di limitare il problema. E' stato
infatti evidenziato come una corretta funzionalita' della muscolatura
pelvica possa ridurre notevolmente gli episodi di incontinenza.
Altre soluzioni di tipo più specificatamente medico, in aggiunta alla
terapia comportamentista, possono
ulteriormente ampliarne i benefici: sono utili ad esempio, in alternativa
o insieme ai farmaci, i supporti intravaginali, le iniezioni periuretrali,
fino agli interventi chirurgici correttivi.
Le soluzioni "mediche" falliscono invece nel caso di
incontinenza da stress; in questo settore la terapia comportamentale
risulta l' unico rimedio efficace.
Guido Zamperini
Fonte: Am Fam Phisician. 2005 Jan 15;71(2):329
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Z- News prescrittive
di Marco
Venuti (dalla Gazzetta Ufficiale)
Antiepilettici (ATC
N03A), escluso valproato - Modificate
le indicazioni per quanto all'uso durante la gravidanza e l'allattamento:
le nuove indicazioni sono:
"Alle pazienti che potrebbero iniziare una gravidanza o che siano in
età fertile deve essere fornita una consulenza specialistica. La necessità
del trattamento antiepilettico deve essere rivalutata quando la paziente
pianifica una gravidanza. Il rischio di difetti congeniti è aumentato di
un fattore da 2 a 3 volte nella prole di madri trattate con un
antiepilettico, quelli più frequentemente riportati sono labbro leporino,
malformazioni cardiovascolari e difetti del tubo neurale. La politerapia
con farmaci antiepilettici può essere associata con un rischio piò alto
di malformazioni congenite della monoterapia. Perciò è importante che si
pratichi la monoterapia ogni volta che sia possibile. Non si deve
praticare una brusca interruzione della terapia antiepilettica per il
pericolo di una ripresa di attacchi epilettici che potrebbe avere gravi
conseguenze sia per la madre che per il bambino."
Valproato - Modificate le indicazioni per quanto
all'uso durante la gravidanza e l'allattamento: le nuove indicazioni sono:
"Il valproato è l'antiepilettico di scelta in pazienti con alcuni
tipi di epilessia come quella generalizzata con o senza mioclono o
fotosensibilità. Per l'epilessia parziale il Valproato dovrebbe essere
usato solo in casi resistenti ad altri trattamenti. Una maggiore incidenza
di anomalie congenite comprese ipospadia, dismorfia facciale e
malformazioni degli arti, è stata riportata nella prole nata da madri con
epilessia che erano sono state trattate con il Valproato rispetto al
trattamento con altri farmaci antiepilettici. Il valproato durante la
gravidanza dovrebbe essere prescritto come monoterapia alla più bassa
dose efficace, in dosi frazionate e se possibile in forme a rilascio
prolungato. Esiti anomali della gravidanza tendono ad essere associati con
dosi giornaliere più alte e con elevate dosi per ogni somministrazione.
E' stato dimostrato che valori elevati di picco plasmatico ed elevate
quantità per ciascuna somministrazione sono associate con difetti del
tubo neurale. L'incidenza dei difetti del tubo neurale aumenta con
l'incremento del dosaggio, specialmente al di sopra di 1000mg/die. L'uso
del valproato è associato con difetti del tubo neurale con incidenza
dall'1% al 2%. L'integrazione dietetica con acido folico prima della
gravidanza, può ridurre l'incidenza dei difetti del tubo neurale nei
neonati di donne ad alto rischio. Le pazienti dovrebbero prendere in
considerazione di assumere 5 mg di acido folico al giorno quando
pianificano una gravidanza. Sono stati riportati casi molto rari di
sindrome emorragica in neonati le cui madri hanno assunto Valproato
durante la gravidanza. Questa sindrome è correlata alla ipofibrinogenemia.
Sono stati riportati anche casi di afibrinogenemia che possono essere
fatali. Pertanto nei neonati devono essere controllati: conta piastrinica,
livello plasmatico del fibrinogeno, test di coagulazione e fattori della
coagulazione. Nelle donne che diventano gravide devono essere condotti
indagini diagnostiche durante la gravidanza come ad esempio ecografie o
altre tecniche appropriate. Non ci sono prove che suggeriscano che le
madri che assumono valproato non debbano allattare."
Flavis - Modificate le indicazioni terapeutiche: le
nuove indicazioni sono:
"Deterioramento cognitivo di grado lieve nell'anziano".
Naropina - Modificate le indicazioni terapeutiche: alle vecchie
indicazioni è stato aggiunto, relativamente al trattamento del dolore
acuto:
"blocco continuo dei nervi periferici per infusione continua o per
iniezioni in bolo intermittenti, per esempio per il trattamento del dolore
post-operatorio".
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APPROFONDIMENTI
AAA Il medico di
famiglia allunga la vita
E' meglio avere piu' medici generici e qualche
specialista in meno?
Alcune riflessioni a margine di uno studio americano di politica
sanitaria. A cura di Renato Rossi
Nell'ultimo decennio il ricorso alla medicina specialistica ha avuto un
incremento esponenziale in tutti i paesi occidentali mentre la medicina di
base tende, almeno in Italia, ad occupare sempre più una posizione
subalterna.
Questo comporta un aumento delle spese per i servizi sanitari ma comporta
anche benefici sulla salute?
Uno studio messo online il 15 marzo 2005 da Health Affaires, un giornale
che si occupa di problematiche di politica sanitaria pubblicato solo sul
web, lascia emergere più di qualche ragionevole dubbio. In questo studio
i ricercatori hanno valutato il numero di decessi per 1.000 abitanti nel
periodo 1996-2000 di oltre 3000 contee statunitensi (il 99.9% di tutte le
contee degli USA) mettendoli in relazione con il numero di medici di
medicina di base e di medici specialisti presenti in ogni singola
contea.
I dati sono stati corretti per vari fattori di confondimento come il
reddito, il livello occupazionale, la disoccupazione, la località (zona
metropolitana o rurale), presenza di anziani e di afro-americani.
Alla fine i risultati appaiono sorprendenti: le contee con una percentuale
più elevata di medici di cure primarie mostrano una mortalità più bassa
ma, quello che è peggio, avere una quantità maggiore di specialisti non
sembra portare agli stessi effetti positivi.
Non è detto che quanto risulta da questo studio sia valido per paesi
diversi e con un'organizzazione medica differente da quella USA, ma si
tratta comunque di dati su cui dovrebbero riflettere i responsabili di
politica e di economia sanitaria.
Soprattutto se a questo studio se ne affianca un altro, di due anni
fa (Ann Int Med 2003 Feb 18; 138: 273-87), in cui si dimostrò che gli
anziani che vivono in alcune regioni degli Stati Uniti in cui l'uso delle
risorse sanitarie è più elevato non hanno più probabilità di avere dei
benefici maggiori in termini di salute rispetto a chi vive in regioni in
cui si spende meno.
Insomma spendendo di più in cure mediche e privilegiando la medicina
specialistica si ottengono degli esiti migliori? Pur con il beneficio del
dubbio i risultati trovati indicano che può anche non esserci una
relazione lineare tra spesa elevata e medicina specialistica e benefici
ottenuti.
Questo, a pensarci bene, potrebbe non essere così sorprendente se si
pensa che la medicina specialistica, oltre ad essere più costosa,
tende ad un maggior ricorso a farmaci nuovi il cui profilo di sicurezza è
meno noto, a procedure chirurgiche e ad accertamenti invasivi che
possono portare ad un
incremento degli eventi avversi di natura iatrogena.
Forse è tempo di ripensamenti : dirigere la prua verso una medicina più
soft e meno invasiva potrebbe alla fine rivelarsi vincente.
Renato Rossi
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MEDICINA LEGALE E
NORMATIVA SANITARIA
Rubrica gestita da D.Z. per ASMLUC: Associazione
Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica
AA1
Le responsabilita' del medico nel caso di
doping
Quando lo sport confina con l' abuso
A margine dei recenti
casi sportivi, che hanno coinvolto in prima persona il medico della
Juventus, e’ utile fare un po’ di chiarezza.
Benche’ molto spesso le due cose vengano confuse tra loro, esiste una
distinzione fondamentale tra "doping" e " abuso di
stupefacenti" . Infatti si tratta di questioni del tutto diverse:
benche’ alcuni farmaci possano appartenere ad entrambi i gruppi (ad
esempio alcuni anfetaminici) non e’ detto che cio’ avvenga sempre.
Per gli stupefacenti la legge ha stabilito in modo inequivocabile le
indicazioni, la prescrizione, la distribuzione e l’ uso di tali farmaci
per tutti i soggetti, con differenziazioni dovute all’ iscrizione in
verie tabelle che dettagliano analiticamente l’ uso e la
prescrivibilita’ di tali farmaci L’ uso di tali farmaci al di fuori
delle indicazioni autorizzate costituisce di per se’ reato penale.
Le sostanze "dopanti" sono invece sostanze o farmaci di uso
comune, liberamente prescrivibili per una serie svariata di patologie
piu’ o meno gravi, di uso molto diffuso. Alcune di queste non sono
neppure veri e propri farmaci. Il loro uso non costituisce di per se’
reato.
Il reato si concretizza solo quando la cessione o l’ uso avvengano in concomitanza con
attivita’ sportive e siano finalizzate all’ alterazione dei risultati.
Non e’ la sostanza in se’ che fa il doping, ma e’ l’uso che se
ne fa: il tentativo di alterare, mediante tali sostanze, le performance
degli atleti. "Atleta dopato" non e' quindi assolutamente
sinonimo di "atleta drogato".
Le norme sul doping: "costituiscono
doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze
biologicamente o farmacologicamente attive ... idonee a modificare le
condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare
le prestazioni agonistiche degli atleti ... sono equiparate al doping la
somministrazione di farmaci e l’adozione di pratiche non giustificate da
condizioni patologiche, finalizzate e comunque idonee a modificare i
controlli sull’uso dei farmaci delle sostanze… ".
Vengono quindi considerate "dopanti",
qualora assunti da un atleta, tutta una serie di sostanze che, usati in
circostanze diverse, sarebbero da considerare farmaci utili o addirittura
salvavita.
Allo scopo di controllare meglio il fenomeno doping, il Ministero della
Sanita’ ha istituito la Commissione per la Vigilanza e il controllo
sul Doping, e ha anche costituito, aggiornandolo periodicamente,
l’elenco delle sostanze dopanti. In questo elenco sono compresi farmaci
di importante effetto clinico come i beta bloccanti, i corticosteroidi,
gli anestetici locali, i diuretici, senza contare i tristemente famosi
anabolizzanti, e le emotrasfusioni. Tra le sostanze "dopanti"
siano stati inclusi anche
principi attivi solitamente considerati innocui o usati per patologie del
tutto diverse, come ad esempio: Caffeina, Efedrina, Clortalidone,
Idroclorotiazide, Furosemide e altri diuretici, Alcool, Cortisonici,
Betabloccanti, Anestetici locali.
Alcune norme di interesse per il medico:
- Legge 14/12/2000 n. 376, pubblicata sulla G.U. del 18/12/2000
n. 294 stabilisce che "salvo che il fatto costituisca piu’ grave
reato, e’ punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa
da lire 5 milioni a lire 100 milioni, chiunque procura ad altri,
somministra, o assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di
sostanze biologicamente o farmacologicamente attive ricomprese nelle
classi previste dall’art. 2 comma 1, che non siano giustificati da
condizioni patologiche e che siano idonee a modificare le condizioni
psicofiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le
prestazioni agonistiche degli atleti .... . La pena e’ aumentata se
dal fatto deriva un danno per la salute, se il fatto e’ commesso nei
confronti di un minorenne, se il fatto e’ commesso da un componente o
da un dipendente del CONI, se il fatto e’ commesso da chi esercita una
professione sanitaria, in questo caso consegue l’interdizione temporanea
all’esercizio della professione".
Non solo: "chiunque
commercia i farmaci .... attraverso canali diversi dalle farmacie aperte
al pubblico, dalle farmacie ospedaliere e da altre strutture che detengono
farmaci direttamente, destinati all’utilizzazione sul paziente, e’
punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da lire 10
milioni a lire 150 milioni".
Per evitare l’ aggiramento delle norme mediante la distribuzione dei
farmaci dopanti sotto forma di galenici (preparati dal farmacista e quindi
non risultanti tra le comuni prescrizioni del SSN) la legge prevede
appunto che le preparazioni galeniche, officinali o magistrali che
contengono i principi attivi appartenenti alle classi farmacologiche
vietate, sono prescrivibili solo dietro presentazione di ricetta medica
non ripetibile; il farmacista e’ tenuto a conservare l’originale della
ricetta per sei mesi.
E’ quindi evidente come diversi soggetti possano venire implicati
nel compimento di tali reati: il medico che incautamente avesse prescritto
tali farmaci (o il farmacista che li distribuisse irregolarmente)
incorrerebbe, oltre alle pene detentive e pecuniarie, anche nell’
interdizione all’ esercizio professionale; alle "sole" pene
detentive e pecuniarie incorrerebbero invece il procacciatore, il custode,
il distributore, l’ eventuale importatore.
Le leggi:
I farmaci stupefacenti sono regolati dal D.L. 539 del 30/12/92 e
successive modificazioni (fondamentalmente dalla legge 8/2/2001, n. 12, G.
U. n. 41 del 19/2/01).
Le sostanze dopanti sono disciplinate essenzialmente dal Decreto
31/10/2001 n. 440, e dalla Legge 14 Dicembre 2000 n. 376 e succ.
modificazioni
Il Codice Deontologico (art. 76) vieta espressamente al medico di consigliare,
prescrivere o somministrare trattamenti dopanti. Queste regole forse
non sono abbastanza rispettate, ma le conseguenze di un incauto
comportamento possono essere gravi.
Daniele Zamperini
Guido Zamperini
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ML1
- Chi
simula malattie, e' colpevole di falso ideologico.
Il datore di lavoro ha diritto di essere informato.
Il
lavoratore che inganna il medico e' colpevole di falso ideologico; Il
lavoratore, in seguito a contestazione disciplinare del datore di lavoro,
deve fornire le informazioni richieste, ne' puo' tricerarsi dietro il
diritto alla riservatezza.. (Cassazione
penale 10 giugno 1999 n. 7468; Cassazione 27 luglio 1994 n. 6982).
Benche'
non recentissima, questa sentenza puo' avere importanti risvolti nell'
attivita' professionale dei medici di famiglia in quanto prende in
considerazione una fattispecie probabilmente frequente ma generalmente
"sommersa": quella del lavoratore che chieda un certificato di
malattia simulando infermita' che non ha.
Abbiamo gia' scritto in altra sede come il medico possa (e in qualche
caso, debba) rilasciare la certificazione di malattia anche in caso di
malesseri soggettivi qualora, in scienza e coscienza e sulla base di
quanto riferito, li ritenga attendibili. In questi casi e' possibile
che un "esperto" riesca a trarre in inganno il sanitario,
tradendo il rapporto di fiducia. La sentenza in oggetto riguarda proprio
uno di questi casi.
La Cassazione ha quindi stabilito che il comportamento del lavoratore che,
simulando la malattia, trae in inganno il proprio medico inducendolo a
certificare una infermità inesistente o più grave del reale è stato
qualificato come falso ideologico in certificato, ex artt. 48 e 480 cod.
pen. .
In
altra occasione la Corte ha preso in considerazione il caso di un' assenza
dal lavoro fortemente sospettata, dal datore di lavoro, di falsita', e
quindi contestata mediante procedimento disciplinare. La Cassazione ha
affermato che la legge oggi non obbliga il lavoratore a comunicare al
datore la diagnosi, ovvero la natura dell’impedimento, né tanto meno le
terapie praticate per curarsi. Ma il datore ben può averne acquisito
legittimamente la conoscenza; e può comunque avere maturato sulla base di
altri elementi e circostanze il giustificato sospetto o la convinzione
circa l’inesistenza dell’impedimento. Deve considerarsi in tal caso
legittima, anche sulla base del solo sospetto indotto dalle circostanze e
senza che sia stato esperito il controllo previsto dall’art. 5 St.lav.,
la contestazione al lavoratore dell’assenza come mancanza disciplinare,
alla quale il lavoratore ha l’onere di rispondere fornendo tutte le
informazioni e i documenti utili a provare la sussistenza e la gravità
della malattia. Quando il lavoratore non adempia questo onere in sede di
procedimento disciplinare, il datore di lavoro convinto del carattere
abusivo dell’assenza ben può adottare il provvedimento disciplinare
adeguato, in relazione alla durata dell’assenza stessa, affrontando il
rischio della verifica giudiziale che può seguirne; in tal caso il
lavoratore non può eccepire in giudizio il proprio diritto alla
riservatezza per trincerarsi dietro i certificati medici esibiti, ma deve
fornire l’indicazione della diagnosi, e la prova degli accertamenti
eseguiti in funzione di essa e delle terapie prescritte dal medico ed
effettivamente praticate.
Daniele Zamperini
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ML2 Lavora
solo 49 giorni in due anni, condannata a sette mesi per truffa
La
Cassazione ha confermato la condanna per truffa
- sette mesi e 15 giorni di reclusione e 750 euro di multa -
nei confronti di Francesca G., una dipendente statale del
Provveditorato agli Studi di Como che in due abbi era stata presente in
ufficio solo per 49 giorni pur continuando a ricevere lo stipendio tutti i
mesi.
La donna era riuscita a procurarsi dei certificati medici che attestavano
patologie anche se molto lievi.
Alle visite di controllo la ASL aveva confermato lo stato di malattia
della dipendente. Per questo in primo grado Francesca era stata assolta.
In appello, invece, i giudici la dichiararono colpevole di truffa in
quanto "le visite di controllo a lei favorevoli, erano state condotte
in modo superficiale e compiacente e certamente non sussisteva l'
efficacia invalidante delle patologie addotte a giustificazione dei
lunghissimi periodi di assenza dal lavoro".
Invano contro questo verdetto la statale assenteista ha protestato in
Cassazione. La VI Sezione penale di Piazza Cavour, infatti, ha rigettato
in pieno il suo ricorso.
Fonte: "Il
Messaggero" 18/1/01 - Roma.
Commento: In attesa di conoscere in esteso le
motivazioni della sentenza, e' interessante osservare come la Corte non
abbia tenuto alcun conto ne' della certificazione del Medico di Famiglia,
ne' di quella dei medici di controllo della ASL, considerandole tutte
"superficiali e compiacenti".
Non sappiamo se e quali provvedimenti siano stati presi verso questi
medici, ne' se il giudizio espresso dalla Corte (e dai Tribunali di merito
prima) sia basato su una Consulenza Tecnica, e quali caratteristiche siano
state prese in considerazione per il giudizio finale.
Ci sono pero' due considerazioni da fare: i medici di famiglia,
trattandosi di dipendente statale, potrebbero aver certificato
semplicemente, su ricettario intestato, la prognosi "clinica" di
patologie magari banali, che la paziente potrebbe aver fatto valere,
presso il proprio ufficio, come prognosi "lavorativa". I medici
di controllo della ASL, invece, hanno lo specifico compito di valutare l'
incidenza della malattia accusata sulla capacita' lavorativa del soggetto;
non averlo fatto in modo adeguato puo' costituire elemento di negligenza o
peggio. Le posizioni dei due sanitari, quindi, possono differire
notevolmente.
E' ovvio, comunque, che per una valutazione precisa bisognera' valutare la
sentenza in esteso.
Daniele Zamperini
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MLL1 Il medico
e la Legge: cap. 12 Il nesso di causalità (Avv. Nicola
Todeschini)
L'individuazione in capo al sanitario di una
responsabilità in ordine all'evento dannoso verificatosi è strettamente legata alla
riconducibilità causale[1] dell'evento
all'azione od omissione del sanitario.
Il tema fondamentale del nesso di causalità assume,
anche e soprattutto in questa disamina, un ruolo del tutto peculiare, stante
l'implicazione con altri temi qui appena accennati, quale il problematico
rapporto tra medici legali o comunque specialisti che operano anche come consulenti di
parte o d'ufficio da un lato e gli altri operatori sanitari dall'altro.
Ai fini della
corretta determinazione del rapporto di causalità, trovano applicazione, anche in sede
civilistica, i principi espressi nelle norme penali di cui agli artt. 40 e 41 cod.
pen.,
in conformità con quanto affermato dalla giurisprudenza della Cassazione[2].
Il nodo che il disposto normativo lascia irrisolto, e
sul quale dottrina e giurisprudenza hanno prodotto gli sforzi interpretativi più
consistenti, è quello dell'esatta configurazione del rapporto tra evento dannoso e
l'azione od omissione. Secondo la formulazione tradizionale della teoria[3] della condicio sine qua non sono
<<causa>> dell'evento gli antecedenti senza il verificarsi dei quali l'evento
non si sarebbe prodotto, individuati sulla scorta del processo della c.d. eliminazione
mentale secondo il quale la condotta è condicio sine qua non dell'evento <<se non
può essere mentalmente eliminata senza che l'evento stesso venga meno>>[4].
Pertanto sarà da analizzare, sotto il profilo etiologico, l'iter
etiopatogenetico, riferendosi al modello della c.d. sussunzione sotto
leggi scientifiche, secondo il quale l'antecedente storico assume rilievo, dal punto di
vista della ricerca etiologica, quando può affermarsi, sulla scorta delle risultanza
scientifiche, che entra a far parte del novero di quegli antecedenti che, secondo una
<<successione regolare, omogenea e conforme ad una legge dotata di validità
scientifica>>, determinano eventi del tipo di quello in concreto verificatosi.
Il rilevo che l'art. 1223 cod. civ.[5], relativo al risarcimento del danno
da inadempimento -richiamato dall'art. 2056 cod. civ. e pertanto applicabile anche al
risarcimento in materia di responsabilità aquiliana- limiti il risarcimento medesimo alla
<<conseguenza immediata e diretta>>, non attiene, come osservato dal Barni[6], alla necessità di intravedere un
criterio cronologico e di congruità, ma indica piuttosto i contorni del contenuto della
responsabilità stessa. E di tale impostazione sembra essersi appropriata anche la Corte
di Cassazione[7] quando ha affermato che <<ai fini del sorgere dell'obbligazione di risarcimento, il nesso di
causalità tra fatto illecito ed evento dannoso può essere anche indiretto e mediato, essendo all'uopo sufficiente che il primo
abbia posto in
essere uno stato di cose senza
il quale il secondo non si sarebbe prodotto e che il danno si
trovi con
tale antecedente necessario in un rapporto eziologico
normale e non fuori
dell'ordinario>>.
In conclusione il criterio della regolarità casuale
fungerebbe da correttivo del criterio espresso dall'art. 1223 cod. civ., nel senso di
ricomprendere nell'area dei danni risarcibili
anche quelli che, pur essendo mediati e indiretti, <<rientrano tuttavia nella serie
delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto [
]>>[8].
Le connessioni
con la configurazione del regime eventualmente diversificato dell'onere della prova
saranno trattate nel paragrafo successivo.
Sotto il profilo medico-legale il nodo della
questione, al quale ritengo opportuno accennare, è per dirla con un'espressione del Fiori[9], <<il problema della
discendenza da un fattore causale di rilevanza giuridica>>. Se infatti l'iter
patogenetico del danno, che è il percorso tra l'evento dannoso e la sua etiologia[10], in talune circostanze risulta
palese e scientificamente certo, in altri casi si consegue solo agli esiti di uno studio,
quello per l'appunto patogenetico, sui ritmi, tempi e modi di sviluppo.
Quindi il compito del medico legale, nella sua
funzione di ausilio alla decisione del giudice, è quello di verificare la causalità
materiale dal punto di vista etiopatogenetico, nonché la causalità giuridica sotto il
profilo della responsabilità giuridicamente rilevante. Ma non potendosi conseguire di
norma giudizi improntati alla certezza sull'iter patogenetico del danno, soccorreranno il
medico legale e la successiva valutazione del giudice i criteri che discendono
dall'applicazione del principio della probabilità statistica, al quale ha attinto
copiosamente la stessa giurisprudenza[11].
Nell'ottica
dell'adeguamento di tali metodologie alle nuove tecniche di elaborazione dei dati e di
consultazione delle basi di dati, può risultare d'ausilio, alla formulazione di
valutazioni probabilistiche, anche l'elaborazione che il calcolatore è in grado di
offrire all'operatore che lo consulti, soprattutto, come in questo caso, quando ci si
trovi a porre in essere giudizi che tanto più sono consapevoli quanto più possono, sotto
questo profilo, essere il risultato della valutazione di una quantità di dati più
consistente possibile. Il vero ostacolo, o meglio la vera professionalità dell'interprete
di questi dati, così come elaborati dalla macchina, sta nella capacità di farne un uso
che funga da ausilio all'applicazione di consapevoli criteri di valutazione, senza
dimenticare che comunque l'elaborazione elettronica dei dati può tenere in considerazione
solo le varianti che sono state inserite preventivamente, e che pertanto fornisce
risultati di operazioni matematiche da valutarsi congruamente.
Il rischio che
secondo alcuni autori[12] si cela
dietro l'introduzione del criterio probabilistico nella valutazione del nesso di
causalità, è quello di estremizzare la
valutazione, confondendo la ricorrenza del dovere del medico d'intervenire per tentare di
salvare il malato, con l'individuazione del nesso di causalità.
Si intende con ciò affermare che se da un lato il
dovere del medico d'intervenire per salvare il malato sussiste anche quando le
probabilità di guarigione sono minime, altra dovrebbe essere la valutazione in termini
probabilistici ove si volgesse l'attenzione alla ricorribilità del nesso di causalità
tra la condotta del medico e l'evento dannoso. La necessità di configurare e adeguare la
teoria della condicio sine qua non, pur integrata dalle valutazioni in termini di
probabilità, si pone sul piano anche dell'individuazione e valutazione -in senso
negativo- di fattori eccezionali che turbino il processo di causalità che si dice
adeguata, volendo in tal modo significare l'esigenza che non siano imputati all'azione od
omissione del sanitario quegli eventi dannosi che non rientrano nel normale sviluppo
etiopatogenetico, in quanto <<anormali e atipici>> ovvero eccezionali,
giacché posti al di fuori del processo causale anzidetto.
Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale
Consumerlaw
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MLL2
Il medico e la legge: cap13
L'onere della prova: una questione aperta (Avv. Nicola Todeschini)
La disamina
delle problematiche relative all'onere della prova, soprattutto con riferimento
all'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale dei disposti legislativi, abbisogna di
alcuni chiarimenti relativi ai lineamenti generali in tema di prova[1].
Il percorso
storico del principio di base espresso nell'antico brocardo actori incumbit probatio e
nell'altro ei incumbit probatio qui dicit non qui negat, si
ritrova nella lettura dell'art. 2697 cod. civ., secondo il quale <<Chi vuol far
valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi
eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o
estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda>>.
Orbene,
l'interpretazione che qui s'accoglie[2] individua
nell'articolo in esame due fondamentali funzioni: da un lato quella di ripartire l'onere
della prova, dall'altro quella di consentire comunque al giudice di decidere, accogliendo
o rigettando la domanda, sulla base del collegamento sistematico con l'art. 116 cod.
proc.
civ. che, affermando il principio del libero convincimento, completa il quadro. Di
conseguenza il giudice non può limitarsi ad un mero non liquet ma decidere, applicando,
se gli elementi offerti non consentono il raggiungimento della prova, la regola dell'art.
2697 cod. civ.
Giova inoltre
ribadire che l'applicazione di quest'ultima trova un proprio spazio solo quando non
esistono regole particolari sull'onere della prova, quale quella -che qui interessa- dell'art.
1218 cod. civ.[3]
A ben vedere,
peraltro, la scelta terminologica[4] operata dal
legislatore - mi riferisco al termine e soprattutto al concetto di <<onere>>-
sembra non soddisfare pienamente; normalmente infatti il concetto di onere sottende il
rapporto esistente tra l'esercizio di una determinata facoltà e il conseguimento di un
interesse. Ebbene, se l'accezione accolta dal legislatore, nella formulazione
dell'articolo in oggetto, fosse stata veramente quella tradizionale poc'anzi descritta, se
ne dovrebbe dedurre che tutte le volte che la parte sulla quale grava l'onere della prova
non vi provveda, dovrebbe derivarne l'impossibilità di conseguire l'interesse o il
risultato al quale si tende. Ma non è così.
Infatti il
giudice può decidere in senso favorevole anche se l'attore non fornisce la prova dei
fatti costitutivi della propria pretesa, quando emergano prove, a quest'ultimo favorevoli,
provenienti dalla controparte o da un terzo che sia intervenuto nel giudizio, talché
dovrà decidere in senso sfavorevole a chi non ha dimostrato i fatti che costituiscono il
fondamento della propria pretesa solo quando gli sia impossibile decidere tenendo in
considerazione tutti gli elementi che siano stati acquisiti al processo.
Ne consegue
che nella situazione esaminata ci si trovi al cospetto non tanto di un onere, nel senso
sopra descritto, piuttosto di un <<aumento del rischio>> -non di un'automatica
impossibilità di veder soddisfatta la propria pretesa- ricollegato al mancato
soddisfacimento del <<comportamento prescritto>> dall'art. 2697 cod. civ.
Svolte queste brevi considerazioni preliminari, è possibile affrontare più
specificamente le problematiche sottese alla prova della responsabilità in ambito
sanitario, e all'elaborazione giurisprudenziale che ne ha caratterizzato il delinearsi.
In primo
luogo, in dottrina, si discute sulla configurabilità di un autonomo obbligo di
chiarimento che potrebbe sussistere in capo a coloro che non sono onerati ai sensi
dell'art. 2697 cod. civ. Si può notare come tale aspetto controverso possa assumere
peculiare rilievo proprio nel caso delle azioni di responsabilità professionale, laddove
si realizza una fattispecie caratterizzata dalla circostanza che il paziente si trova
quasi sempre sprovvisto della documentazione e dei mezzi di prova per far valere la
propria pretesa. Quindi per i fautori della tesi che privilegia l'individuazione autonoma
di un obbligo di chiarimento, quest'ultimo lo si dovrebbe rinvenire in capo ai sanitari,
come accade in altri Paesi. Ad ogni buon conto la giurisprudenza italiana si è attestata
su posizioni diverse, preferendo alleggerire la posizione del tutto peculiare del malato
limitandone l'onere probatorio, e ponendo piuttosto in capo al sanitario l'onere di
provare l'adeguatezza della propria prestazione professionale, prestando però il fianco
ad una critica, ovverosia quella di aver trattato, quasi confondendoli, onere della prova
e obbligo di chiarimento.
Conseguenza
immediatamente apprezzabile è quella che si assiste così allo spostamento del rischio
del mancato convincimento del giudice dall'onerato, ex art. 2697 cod. civ., all'altra
parte, sulla quale sarebbe semmai gravato esclusivamente l'onere di chiarimento.
Ma il nostro
ordinamento giuridico prevede anche altre regole riguardanti l'onere della prova, che
comportano conseguenze differenti. Tra queste le c.d. presunzioni iuris tantum -che
ammettono cioè la prova contraria- le quali, al pari dell'art. 2697 cod. civ., da un lato
ripartiscono l'onere della prova, dall'altro stabiliscono una regola di giudizio,
indicando al giudice come deve decidere la controversia ove la parte che risulta onerata
non abbia fornito la prova richiesta. La ratio di tali previsioni è ricollegabile vuoi a
criteri di esperienza, vuoi a criteri di probabilità, infine a criteri di
verosimiglianza.
E ancora si
possono ricordare le presunzioni iuris et de iure -c.d. assolute- che non ammettono la
prova contraria.
Tra le norme che, come anticipato, presentano una diversa ripartizione dell'onere
della prova deve segnalarsi, soprattutto ai fini della presente esposizione, la regola di
cui all'art. 1218 cod. civ., secondo la quale sul debitore che non ha eseguito esattamente
la prestazione, grava l'onere di provare che l'inadempimento o il ritardo sono dovuti a
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, essendo tenuto,
in caso contrario, a risarcire il danno.
La
giurisprudenza, attestatasi fino agli anni '70 su posizioni piuttosto favorevoli al
medico, ha cominciato in quegli anni a mutare il proprio indirizzo, fino a creare una
sorta di inversione dell'onere della prova nei casi di non difficile esecuzione
dell'intervento. All'uopo risulta di estrema chiarezza una recentissima sentenza della
Cassazione[5], non ancora pubblicata, ove si
legge che:
nel giudizio avente
ad oggetto l'accertamento della responsabilita' del medico
chirurgo per l'infelice esito
di un intervento chirurgico, l'onere della prova si riparte tra attore e convenuto a seconda
della natura dell'intervento effettuato, e precisamente:
a) nel caso di intervento di difficile esecuzione, il medico ha l'onere di provare soltanto la natura complessa dell'operazione,
mentre il paziente ha l'onere di provare quali siano state le modalita' di esecuzione ritenute
inidonee;
b) nel caso
di intervento di facile o
routinaria esecuzione, invece, il paziente ha il solo onere
di provare la natura routinaria dell'intervento, mentre sara' il medico, se vuole andare esente da
responsabilita', a dover
dimostrare che l'esito negativo non e' ascrivibile alla propria negligenza od imperizia.
Quindi a
dispetto di un intervento di facile esecuzione e del peggioramento delle condizioni del
paziente che vi si è sottoposto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, per
indirizzo ormai costante[6], distribuisce
l'onere della prova tra le parti nel senso di far gravare sul paziente l'onere di provare
che l'intervento e/o la terapia erano di facile esecuzione e che ne è derivato un
risultato peggiorativo, e sul sanitario l'onere di fornire
la prova contraria, ossia la prova che la sua prestazione è stata eseguita diligentemente
e che l'esito dannoso è stato provocato da un evento sopravvenuto imprevisto ed
imprevedibile, ovvero da una pregressa condizione particolare del malato che non è stato
possibile accertare con la dovuta diligenza professionale.[7]
Quanto poi
all'eventualità, che la giurisprudenza più recente ritiene possibile, ossia quella che
con il chirurgo estetico il paziente perfezioni un contratto avente
ad oggetto un'obbligazione di risultato
-piuttosto
che di mezzi-, la prova di tale contenuto grava sul paziente, così come sul medesimo
grava l'onere di provare l'insufficiente
informazione ricevuta dal sanitario[8].
Avv. Nicola
Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale
Consumerlaw
[Per motivi di spazio l' articolo completo di note e' riportato su
www.scienzaeprofessione.it ]
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PENSIERI E
PAROLE
RR1 La
stupidità (di Massimiliano Fanni Canelles)
“Stupido
è colui che fa un'azione che reca danni a un'altra persona, senza
ricavarne alcun guadagno e spesso realizzando una perdita per se
stesso”, scrisse Carlo M. Cipolla, grande economista e autore di diversi
saggi sull’argomento. Non è detto che questa frase racchiuda la
complessa essenza della stupidità ma è certo che lo studio di questo
aspetto della mente umana è sempre stato difficoltoso anche, ma non solo,
per la mancanza di una chiarezza su cosa essa sia.
Spesso il genio è considerato stupido dalla maggioranza degli uomini che
a causa della loro stupidità non si rendono conto della genialità degli
individui che incontrano. Ci
sono infatti uomini etichettati come stupidi ma straordinariamente
elastici dal punto di vista intellettuale e uomini molto goffi
intellettualmente che non lo sono affatto.
Oggi però la comunità scientifica è convinta che questo difetto non
coinvolga assolutamente l’aspetto umano legato a bassi livelli di
istruzione o all'assenza di stimoli nell'infanzia, ma che si tratti
essenzialmente di un deficit intellettivo da rapportare al profilo
genetico di ognuno di noi.
Le idee appena sorte propongono la possibilità di “curare” quello che
fino a poco tempo fa veniva considerato un aspetto sociale e che ora è
diventato disfunzione genica e quindi malattia. “Si può e si deve
sconfiggerla rimuovendo il gene responsabile”, ad auspicare l'uso dell'
ingegneria genetica per eliminare la stupidità dal pianeta terra è
niente meno che James Watson, fondatore del Progetto per il genoma umano e
l'uomo che 50 anni fa scopri' il Dna. ''Nei casi di vera stupidità, io
parlerei di malattia'', ha sottolineato Watson. ''Non mi sembra giusto che
una parte della popolazione nasca senza le stesse opportunità'', ha
aggiunto. ''Una volta che esiste il modo di migliorare i nostri bambini
non ci si può più fermare”. E come ciclicamente avviene nella storia
dell’umanità ecco che nasce una nuova motivazione per selezionare la
razza umana perfetta. “Ci saranno genitori che potenzieranno i loro
figli, e quei bambini domineranno il mondo''. Watson da tempo difende a
spada tratta l’eugenetica, tecnica utilizzata per modificare il Dna
dell'embrione che permette di sradicare gravi difetti o il rischio di
contrarre particolari malattie in vita. E perché fermarsi
all'intelligenza, sottolinea Watson, ''c'e' chi dice che sarebbe terribile
se rendessimo tutte le ragazze belle. Io penso che sarebbe
meraviglioso”.
Se studiamo la frequenza della stupidità fra le persone che fanno le
pulizie nelle aule scolastiche notiamo come questa sia effettivamente
elevata. I risultati dei test intellettivi eseguiti su questi operatori
hanno mostrato una percentuale estremamente ridotta degli individui
intelligenti. Forse questo è dovuto al loro basso livello di educazione o
al fatto che le persone più capaci ottengono più facilmente un lavoro
qualificato. Ma quando è stata analizzata la percentuale di stupidità
fra gli studenti e i professori che frequentano le stesse aule pulite
dagli “idioti” la percentuale di diffusione è risultata identica.
Ma allora chi è in grado di definire cosa sia la stupidità?
Forse gli stupidi sono solo quelli che non riescono ad entrare nel
sistema per l’incapacità di adattamento, perché inserirsi significa
ogni giorno confrontarsi con gli altri, accettare compromessi e immoralità.
L’incapacità ad accettare le regole del gioco significa inadeguatezza,
debolezza ma siamo sicuri che queste caratteristiche esprimano un deficit
intellettivo?
L’umanità ha sempre tentato di filtrare il flusso degli uomini
selezionando solo gli individui adatti ai canoni del tempo. E forse
l’eugenetica all'inizio del terzo millennio risolverebbe il problema
alla radice. Per selezionare la razza perfetta non sarà più necessario
uccidere i “diversi” come molti popoli hanno tentato di fare in
passato, ma sarà possibile ottenere lo stesso risultato emarginandoli o
ancor meglio impedire che nascano: immorale? Forse, ed allora la soluzione
è farli nascere come vogliamo noi: tutti belli, tutti intelligenti, tutti
perfetti…..tutti uguali.
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NL
- LE NOVITA' DELLA LEGGE (Di Marco Venuti)
PRINCIPALI
NOVITA' IN GAZZETTA UFFICIALE
mese di marzo 2005
|
La
consultazione dei documenti citati, come pubblicati in Gazzetta
Ufficiale, è fornita da "Medico & Leggi" di Marco
Venuti: essa è libera fino al giorno 23.04.2005. Per consultarli,
cliccare qui
|
DATA
GU |
N° |
TIPO
DI DOCUMENTO |
TITOLO |
DI
CHE TRATTA? |
02.03.05 |
50 |
Legge
n. 26 del 01.03.05 |
Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 dicembre 2004,
n. 314, recante proroga di termini |
Ulteriormente
modificati i termini per adottare misure di sicurezza nel
trattamento dei dati personali (art. 6 bis) |
02.03.05 |
50 |
Conferenza
Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province
Autonome di Trento e Bolzano, Provvedimento 03.02.05 |
Accordo,
ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997,
n. 281, tra il Ministro della salute, le regioni e le province
autonome di Trento e di Bolzano, concernente «linee di indirizzo
per la definizione del percorso assistenziale ai pazienti con
ictus cerebrale» |
....................... |
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