"Scienza e Professione"
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N. 6, anno 2, Aprile  2005

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INDICE GENERALE

PILLOLE
- Ragazzi sempre più obesi ed ipertesi
-
L'uso della cannabis aumenta il rischio di sviluppare sintomi psicotici?
-
La TOS in post - menopausa aumenta il rischio di incontinenza urinaria
-
Continua la saga dei coxib:  cap. 1
-
Coxib: altri elementi, in vista del giudizio finale 
-
Coxib: finalmente la soluzione (finale?)
-
Coxib vs FANS: stesso rischio se associati ai dicumarolici
-
Vaccino antinfluenzale e rischio di eventi cardiovascolari 
-
Statine e markers di flogosi 
-
Pergolide associata a valvulopatia cardiaca 
-
La morte improvvisa negli epilettici potrebbe essere dovuta ad asistolia 
- Estrogeni in post-menopausa aumentano il rischio di patologie biliari
-
ASA e esomeprazolo meglio del clopidogrel per tollerabilità gastrointestinale 
-
Senza tonsille migliora la vita dei bambini con apnee
-
Clortalidone efficace e sicuro nei diabetici
-
Fluoxetina piu' ormoni (HRT) o solo ormoni nella depressione post menopausa?
-
I nuovi antidepressivi nella gravidanza
-
La Duloxetina nel disturbo depressivo maggiore del paziente anziano.
-
Non solo farmaci per l' incontinenza.

- News prescrittive (dalla Gazzetta Ufficiale): (a cura di Marco Venuti):
Antiepilettici, Valproato, Flavis, Narodipina


APPROFONDIMENTI

Il medico di famiglia allunga la vita 


MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA
Di Daniele Zamperini per ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica.

Le responsabilita' del medico nel caso di doping
-
 Chi simula malattie, e' colpevole di falso ideologico
-
Assenteista condannata per truffa malgrado i certificati: le valutazioni della Cassazione  
- Il medico e la legge: cap. 12 Il nesso di causalità (Avv. Nicola Todeschini)
-
Il medico e la legge: cap13 L'onere della prova: una questione aperta (Avv. Nicola Todeschini)


PENSIERI E PAROLE 
-
La stupidità (di Massimiliano Fanni Canelles) 


- LE NOVITA' DELLA LEGGE (Di Marco Venuti)In Gazzetta Ufficiale, Marzo 2005
Su www.medicoeleggi.it/pillole/freeconsult.htm Marco Venuti mette a disposizione una serie di articoli su problemi connessi alla prescrizione dei farmaci.


PILLOLE


A - Ragazzi sempre più obesi ed ipertesi

Un aumento della pressione arteriosa è frequente nei bambini e negli adolescenti ed è fortemente correlato al peso. Sono necessarie misure sanitarie urgenti per limitare le conseguenze dell’obesità e le sue conseguenze emodinamiche.

La pressione arteriosa è stata misurata a 3.589 bambini ed adolescenti canadesi di 9, 13 e 16 anni. Il livello medio della pressione arteriosa è stato rispettivamente di 103/57, 113/58 e 124/61 mmHg nei ragazzi dei gruppi di età menzionati e di 103/57, 111/60 e 114/62 mmHg nelle ragazze. La prevalenza di una pressione sistolica media elevata è stata rispettivamente del 12%, 22% e 30% nei ragazzi e del 14%, 19% e 17% nelle ragazze. La pressione diastolica elevata è stata rilevata in <1% dei soggetti esaminati. All’analisi multivariata, l’indice di massa corporea è risultato associato ad un incremento della pressione arteriosa sistolica e diastolica in tutte le fasce di età. Un aumento della pressione arteriosa è frequente nei bambini e negli adolescenti ed è fortemente correlato al peso.
Fonte: Circulation 2004; 110: 1832-1838.
segnalato da ANSISA http://www.ansisa.it

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B L'uso della cannabis è associato ad un aumentato rischio di sviluppare sintomi psicotici.
Ma la relazione tra  cannabis e problematiche psicologiche e comportamentali è ancora dibattuta.

In questo studio osservazionale sono stati reclutati 2437 soggetti (età 14-24 anni) ed è stato valutato l'uso della cannabis, l'eventuale predisposizione a sintomi psicotici e lo sviluppo di psicosi sia la baseline che al termine del follow-up di quattro anni.
Dopo aggiustamento per vari fattori di confondimento (età, sesso, stato socio-economico, traumi infantili, predisposizione per psicosi e uso di altre droghe, fumo, e alcol) si è riscontrato che l'uso di cannabis al baseline aumentava l'incidenza di sintomi psicotici al termine del follow-up (OR 1.67, IC 95% 1.13-2.46).
L'incidenza di psicosi però era molto più evidente nei soggetti che già al baseline manifestavano una predisposizione a sviluppare sintomi psicotici. Inoltre vi era una relazione dose-risposta nel senso che lo sviluppo di psicosi era associato in modo consistente in coloro che facevano un uso frequente della cannabis. Invece la predisposizione alla psicosi al baseline non era un fattore predittivo di uso di cannabis.

 Fonte:
Kaplan C et al. Prospective cohort study of cannabis use, predisposition for psychosis, and psychotic symptoms in young people. BMJ  2005 Jan 1; 330:11 

Commento di Renato Rossi
E' comunemente accettato che l'uso della cannabis sia associato allo sviluppo di sintomi psicotici. Tuttavia non sappiamo se questa associazione è di tipo causa-effetto (cioè se sia la cannabis a provocare la psicosi) o se non sia al contrario la predisposizione alla psicosi a costituire un fattore di rischio per l'uso di cannabis.
Questo studio suggerisce che l'uso della cannabis è associato ad un aumento moderato di sviluppo di sintomi psicotici anche se il rischio è evidente soprattutto nei giovani che già al baseline hanno una predisposizione alla psicosi. D'altra parte questa predisposizione non è un fattore predittivo di uso di cannabis in futuro e questo contrasta l'ipotesi della cosidetta "automedicazione".
Gia' uno studio  aveva evidenziato una forte associazione tra l'uso giornaliero della cannabis e ansia e  depressione nei giovani adolescenti (BMJ 2002; 325:1195-1198).
La cannabis potrebbe anche avere degli impatti negativi sul quoziente intellettivo?
Secondo uno studio sembra che non ci siano conseguenze negative a lungo termine sull'intelligenza ma rimane da accertare se vi possano essere ripercussioni su aspetti specifici come la memoria e l'attenzione  (CMAJ 2002; 166: 887-891).
In realtà i possibili problemi legati all'uso della cannabis sono stati oggetto di numerosi studi e di revisioni più o meno sistematiche e le conclusioni sono tra loro discordanti.
La revisione sistematica più recente (Lancet 2004; 363:1579-1588) è molto critica rispetto alle revisioni precedenti. Essa ha considerato solo studi di popolazione longitudinali che riportassero un'associazione tra uso di sostanze illecite da parte degli adolescenti e dei giovani e pericoli o danni psico-sociali. La ricerca ha permesso di identificare 48 studi, 16 dei quali di elevata qualità. Una associazione abbastanza consistente è stata trovata tra l'uso della cannabis e un più basso raggiungimento educazionale e un aumento dell'uso di altre sostanze illegali. Associazioni meno evidenti sono state dimostrate tra l'uso della cannabis e problemi di tipo psicologico o comportamentale. Secondo gli autori tutte queste associazioni sembrano essere spiegabili in termini di meccanismi non tipo causa-effetto. In altre parole sembra che non sia la cannabis a portare ad alterazioni psicologiche o comportamentali; al contrario la cannabis potrebbe essere semplicemente un testimone di queste problematiche legate ad altri fattori (culturali, familiari, economici, ambientali, di disagio ecc.).
Questa revisione conclude che i dati disponibili non confermano l'esistenza di una importante relazione causale tra l'uso della cannabis nei giovani e alterazioni psicologiche e sociali, anche se non possono escludere che una qualche relazione possa esistere. Secondo gli autori  la mancanza di un legame forte impedisce di attribuire danni importanti alla salute pubblica derivanti dall'uso della cannabis e per trarre conclusioni diverse sarebbero necessarie prove migliori. 
Quando si parla di argomenti di questo tipo si corre il rischio di lasciarsi prendere da convincimenti personali, sia in un senso sia nell'altro, mentre ci si dovrebbe basare sui dati a disposizione. Purtroppo le evidenze disponibili sono per il momento contrastanti e originano da studi di tipo osservazionale che, per loro natura, forniscono prove più deboli rispetto agli RCT.  Naturalmente studi di intervento randomizzati e controllati sono impensabil, per una serie ovvia di ragioni.
Non si sa bene se la relazione tra uso di cannabis e problematiche psicologiche o comportamentali sia o meno causale. Se ci fosse una relazione causa-effetto bisognerebbe ritenere l'uso ricreativo della cannabis un grave problema di salute pubblica. Se fosse il contrario questo significherebbe che le politiche repressive non hanno alcun impatto sulla salute pubblica e anzi potrebbero in qualche misura essere più dannose che utili. Probabilmente se ne continuerà a discutere ancora a lungo.

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C  La terapia ormonale sostitutiva in post - menopausa è associata ad un aumento del rischio di incontinenza urinaria

Lo studio cosidetto delle Infermiere è uno studio osservazionale statunitense durato molti anni che è servito ad alcuni ricercatori per verificare l'associazione esistente tra post-menopausa, terapia ormonale sostitutiva e incontineza urinaria. Sono stati analizzati i dati di quasi 40.000 donne in post-menopausa (età 50-75 anni) che all'inizio dell'osservazione non riportavano sintomi attribuibili a incontinenza urinaria. Dopo aver seguito le partecipanti per circa 4 anni e aver corretto di dati per vari fattori di confondimento (fumo, isterectomia, BMI, uso di farmaci e malattie concomitanti) gli studiosi hanno potuto determinare che l'incidenza annuale di incontinenza urinaria era del 3% nelle donne che non assumevano terapia ormonale sostitutiva (TOS) e de l 3,8% nelle donne in TOS. Il rischio relativo di incontinenza urinaria era di 1,54  nelle donne che assumevano estrogeni orali e di 1,68 nelle donne trattate con preparazioni transdermiche. Il rischio diventava ancora più evidente considerando solo l'insufficienza urinaria importante. Inoltre il rischio diminuiva nelle donne che smettevano la TOS rispetto alle donne che la continuavano.
Fonte: Grodstein F  et al.  Postmenopausal hormone therapy and risk of developing urinary incontinence. Obstet Gynecol  2004;103:254-60.
 
 Commento di Renato Rossi
Si sapeva già che l'incontineza urinaria è una situazione di riscontro frequente nelle donne in post-menopausa. Dato che la TOS ha degli effetti positivi su alcuni sintomi della menopausa (per esempio secchezza e atrofia vaginale) ssi poteva ragionevolmente pensare  che potesse essere utile anche per ridurre l'incontinenza urinaria.
Questo studio fa invece cjìhiarezza dimostrando che non solo non è così, anzi al contrario l'uso della TOS è associato ad un aumento del rischio. Il fatto che si tratti di uno studio osservazionale può far pensare che ci sia un bias di selezione e cioè che siano le donne che hanno incontinenza urinaria ad usare la TOS prorpio per cercare di alleviare il loro disturbo. Contro tale oipotesi sta la dimostrazione che l'incontinenza si riduce nelle donne che smettono la TOS rispetto a quelle che la continuano. Dopo i risultati dello stuio WHI, le indicazioni per la TOS si fanno dunque sempre più limitate.

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D Continua la saga dei coxib:  cap. 1

La rivista Archives of Internal Medicine nel numero del 24 gennaio 2005 pubblica ben quattro studi sui coxib. Come mai solo ora tutto questo zelante interesse?

Un primo studio di tipo caso-controllo evidenzia che i soggetti in trattamento con warfarin hanno un rischio di sanguinamento gastrointestinale quando assumono contemporaneamente un inibitore selettivo della cox-2 che è simile a quello di chi assume warfarin + FANS non selettivo.
Nel secondo studio si suggerisce che l'aumento degli eventi cardiovascolari attribuito ai coxib può essere in parte legato anche all'uso esteso che si è fatto di questi farmaci, prescritti estesamente anche a pazienti che non avevano ragioni per trarne beneficio. Dopo la commercializzazione dei coxib si è avuto infatti un viraggio nella prescrizione degli antinfiammatori dai FANS tradizionali, meglio conosciuti sotto il profilo di sicurezza, a questa nuova classe, costosa e dal profilo di sicurezza ancora per molti versi sconosciuto. Sotto questo aspetto si può senz'altro dire che la pressione esercitata dalle industrie farmaceutiche si è rivelata efficace nel cambiare le modalità prescrittive dei medici.
In un terzo studio osservazionale di coorte è stato paragonato il rischio cardiovascolare dei coxib rispetto ai FANS non selettivi diversi dal naproxene. I risultati di questo studio, su oltre 6.000 pazienti, suggeriscono che i coxib non producono un aumento del rischio di eventi cardiovascolari rispetto ai FANS non selettivi diversi dal naproxene.
Un quarto studio infine (studio CRESCENT), di tipo randomizzato e in doppio cieco su 404 pazienti, dimostra che il rofecoxib aumenta i valori della pressione sistolica rispetto a celecoxib e naproxene.
Infine la rivista The Lancet pubblica online il 25 gennaio 2005 uno studio caso-controllo da cui risulta che il rischio di eventi coronarici gravi del rofecoxib è di 1,47 rispetto al celecoxib per dosaggi di 25 mg/die o inferiori e di 3,58 per dosaggi di rofecoxib superiori ai 25 mg/die. Lo studio smentisce anche l'ipotesi che il naproxene possa avere un effetto coronarico protettivo: OR rispetto agli altri FANS di 1,14 ( 95%CI 1.00-1.30, p = 0.05).
Secondo gli autori il rofecoxib avrebbe provocato, solo negli USA, tra gli 88.000 e i 140.000 eventi coronarici.
Fonte:
Arch Intern Med. 2005;165:158-160, 161-168, 171-177, 181-186, 189-192 
Graham DJ et al. Risk of acute myocardial infarction and sudden cardiac death in patients treated with cyclo-oxygenase 2 selective and non-selective non-steroidal anti-inflammatory drugs: nested case-control study
Lancet. Published online January 25, 2005.

Commento di Renato Rossi
Dopo il ritiro dal commercio del rofecoxib nell'ottobre del 2004 le riviste mediche sembrano aver scoperto un nuovo filone da sfruttare fino all'esaurimento e continuano a sfornare studi sui coxib.
La stampa profana ha ripreso con ampio risalto la vicenda. Per esempio il quotidiano La Repubblica del 25 gennaio 2005 titola in prima pagina "USA, inchiesta di Lancet sul farmaco antinfiammatorio. Il Vioxx responsabile di 140.000 morti".
Una riflessione su questa vicenda è sicuramente necessaria. Vanno richiamati ad una maggior attenzione verso farmaci di nuova immissione sia le autorità regolatorie che i medici e bisogna auspicare che in futuro i ricercatori possano evitare il ripetersi di simili eventualità. Inoltre i controlli post-marketing dovrebbero funzionare più efficacemente mentre FDA ed EMEA, preposte alla autorizzazione della immissione in commercio dei nuovi farmaci, dovrebbero essere più rigide e meno rapide nelle loro decisioni.
Ma viene spontaneo anche chiedersi dove fossero tutti gli esperti quando qualche Cassandra, già nel 2000-2001, in epoche non sospette, richiamava alla cautela nell'uso di questi farmaci e ricordava che lo studio VIGOR mostrava un aumento degli eventi cardiovascolari legato all'uso di rofecoxib.

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E - Coxib: altri elementi, in vista del giudizio finale

In  New England Journal of Medicine pubblica anticipatamente i risultati di tre studi sui coxib.

Il primo è lo studio APPROVe (Adenomatous Polyp Prevention on Vioxx trial) che ha portato al ritiro del rofecoxib dal mercato nel settembre 2004. In questo lavoro multicentrico in doppio cieco sono stati arruolati 2.586 pazienti con storia di adenomi del colon-retto, randomizzati a ricevere rofecoxib 25 mg/die o placebo per tre anni. Durante un' analisi ad interim dei dati effettuata da un comitato esterno si evidenziò che si erano verificati eventi trombotici in 46 pazienti del gruppo rofecoxib e 26 nel gruppo placebo (1,50 eventi per 100 pazienti/anno vs 0,78 eventi per 100 pazienti/anno; RR 1,92; 95%CI 1,19-3,11; P = 0,008). L'aumento del rischio cardiovascolare diventava evidente dopo  18 mesi di trattamento, soprattutto a causa di un aumento degli infarti miocardici e delle ischemie cerebrali.
Nel secondo studio, detto APC (Adenoma Prevention with Celecoxib), sono stati arruolati 2.035 pazienti con una storia di neoplasia colorettale, randomizzati a placebo, celecoxib 200 mgx2/die e celecoxib 400 mgx2/die. Il
follow-up fu di 2,8-3,1 anni.  L'end point composto (morte cardiovascolare, infarto miocardico, stroke, scompenso cardiaco) si verificò nell'1% del gruppo placebo, nel 2,3% del gruppo celecoxib 200 mgx2 e nel 3,4% del gruppo celecoxib 400 mgx2. Gli autori di questo studio notano che il trial in realtà non aveva abbastanza potenza statistica per valutare il rischio cardiovascolare per cui questi dati dovrebbero essere interpretati con cautela. In ogni caso venne deciso di interrompere anticipatamente lo studio.
Il terzo studio si proponeva di valutare l'efficacia e la sicurezza di due coxib (valdecoxib e parecoxib) nel trattamento del dolore post-operatorio in 1.671 pazienti sottoposti a by-pass coronarico. Al follow-up dopo 30 giorni i gruppi trattati con coxib avevano un rischio di eventi cardiovascolari (inclusi infarto miocardico, arresto cardiaco, stroke ed embolia polmonare) del 2,0% rispetto allo 0,5% del gruppo trattato con placebo.
Fonte:
N Engl J Med 2005, Published online Feb 15.

Commento di Renato Rossi
Mentre in questi giorni la FDA ha dato mandato ad un comitato di esperti di valutare tutti i dati sulla sicurezza dei coxib (il responso è previsto a breve), la pubblicazione anticipata di questi tre studi da parte del New England (i cui risultati peraltro erano già stati resi noti) porta ulteriori elementi a favore dell'ipotesi che sia l'intera classe dei coxib ad avere un effetto pro-trombotico. Pur essendo vero che l'eccesso di rischio cardiovascolare sembra legato ad un uso prolungato di questi farmaci, i risultati dello studio dopo by-pass coronarico mostrano un preoccupante aumento degli eventi anche per terapie di breve durata.
Ci si chiede quindi da una parte se le autorità regolatorie abbiano fatto tutta la loro parte prima di autorizzare la commercializzazione di questi nuovi farmaci: forse è ora di rivedere le regole che permettono l'immissione
nel mercato di principi farmacologici nuovi, rendendole più severe.
D'altra parte per le indicazioni per cui sono approvati i coxib esistono già molti farmaci usati da anni (aspirina, paracetamolo, FANS non selettivi) il cui profilo di rischio dovrebbe essere più conosciuto. Uso il condizionale
in quanto recenti dati sul naproxene (di cui si è riferito in una pillola di qualche settimana fa) pongono la questione se veramente sia nota l'effettiva sicurezza dei FANS  intesi come classe. E' inoltre recentissima la notizia di reazioni cutanee fatali con l'uso di ibuprofen (www.medscape.com/viewarticle/499537).
Trarre una conclusione per ora non è facile. In attesa del giudizo finale degli esperti si può raccomandare cautela nell'uso non solo dei coxib ma dei FANS in generale rispettando le controindicazioni e avendo l'avvertenza di
usarli a dosi basse e per periodi brevi, specialmente negli anziani con patologie cardiovascolari e/o con riduzione della funzionalità renale e ricordando che buoni risultati nel controllo del dolore spesso si ottengono con il paracetamolo (associato o meno alla codeina).

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F - Coxib: finalmente la soluzione (finale?)

A
lla fine di una camera di consiglio che deve essere stata molto travagliata la FDA ha emesso il suo verdetto: gli inibitori della ciclo-ossigenasi 2 possono continuare a rimanere in commercio e ad essere prescritti dai medici perchè, anche se gravati da un aumento degli effetti cardiovascolari, i loro benefici sulla salute superano i rischi. Inoltre, a sorpresa, la FDA ha dato parere favorevole alla reintroduzione in commercio del rofecoxib, anche se la commissione di esperti si è praticamente spaccata in due tra favorevoli e contrari . 
Fonte: segnalato da Doctornews.

Commento di Renato Rossi
La decisione dell'ente americano arriva dopo appena due giorni dal pronunciamento dell'EMEA (fatto proprio dall'AIFA) secondo il quale i coxib devono avere importanti limitazioni al loro uso: non bisogna prescriverli ai
pazienti cardiopatici o a rischio cardiovascolare, vanno somministrati alla dose più bassa possibile e per il periodo più breve.
Insomma, come era accaduto per le linee guida sull'ipertensione, le due sponde dell'Atlantico sembrano essere adesso un pò più lontane. Sarà interessante vedere come reagiranno gli enti regolatori europei alle decisioni della FDA.
Nella vicenda vi è un risvolto poco chiaro. David Graham, autore di un recente studio pubblicato su Lancet, di cui avevamo riferito in una pillola precedente (Lancet 2005 Feb 6; 365:475-81), doveva presentare alla commissione della FDA, riunita in assise, i dati relativi a studi non ancora pubblicati sui coxib. Ma pochi giorni fa ha reso noto che non li presenterà avendo ricevuto una e-mail da parte dei suoi superiori che la presentazione di questi dati sarebbe avvenuta a suo rischio. (Medscape News, 2005 Feb 15).
Il tono usato nella e-mail ricevuta, dice Grahan, è quello che si usa di solito per gli insubordinati. Graham voleva
presentare i dati del California's Medicaid Program in cui sono stati studiati più di 15.000 infartuati. Un  portavoce della FDA ha affermato che la decisione se presentare o meno i nuovi risultati spettava a  Graham stesso. Alla fine comunque Graham ha tenuto la sua relazione affermando che a suo parere la tossicità cardiovascolare dei coxib è un effetto classe, che appare evidente soprattutto con le dosi più elevate, ma che ogni farmaco va valutato singolarmente (Medscape News, 2005 Feb 17).
Francamente, da qualsiasi parte stia la ragione, una vicenda non proprio chiara. Sembra quasi che la medicina basata sulle evidenze sia morta e sepolta e che gli studi clinici acquistino valenze diverse a seconda di come li si interpreta. Non altrimenti si può giudicare la decisione della ditta produttrice di ritirare il rofecoxib (contro ogni suo interesse commerciale, tanto che il valore delle sue azioni alla borsa americana si è quasi dimezzato) e quella contrastante della FDA di reintrodurlo.
Nel frattempo come dovrebbero comportarsi i medici? Penso non sia difficile prevedere che se anche la ditta produttrice decidesse di immettere di nuovo in commercio il rofecoxib gli operatori sanitari e i pazienti stessi (che nell'epoca di internet e dell'informazione globale sono venuti a conoscenza della questione quasi in tempo reale) avranno molte difficoltà ad usarlo. E poi la ditta sarà comunque pronta a rischiare nuove e più clamorose azioni
legali intentate dai pazienti che si sentiranno danneggiati dal farmaco?
All'uscita della metropolitana di New York nelle settimane scorse c'erano cartelloni pubblicitari che invitavano i pazienti che avevano usato il Vioxx a rivolgersi a studi legali per studiare il da farsi. Aberrazioni americane, si dirà. Dal canto nostro, però, credo che suggerire cautela sia d'obbligo adottando per ora le misure suggerite dall'EMEA  (tra l'altro in Italia l'uso dei coxib a carico del SSN deve ubbidire all'ulteriore restrizione della nota
66).
Tutta la vicenda lascia abbastanza sconcertati e non si possono escludere ulteriori sviluppi e colpi di scena.
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G - Coxib vs FANS: stesso rischio se associati ai dicumarolici

I pazienti che assumono Coxib e anticoagulanti presentano un rischio aumentato di ospedalizzazioni per emorragia gastroentrica al pari di quelli che assumono contemporaneamente FANS e dicumarolici.

Si tratta di uno studio retrospettivo a disegno annidato in cui sono stati considerati i pazienti dell'Ontario di 65 anni o più, intrattamento con anticoagulanti orali. Dall'esame delle prescrizioni ricevute prima del ricovero. Dei 98821 pazienti che erano in trattamento con dicumarolici 361 (0,3%) sono stati ammessi per emorragia GI. Questi pazienti rispetto a quelli in TAO, ma senza complicanze GI, avevano più frequentemente assunto prima dell'ospedalizzazione FANS (OR: 1.9; 95% [CI], 1.4-3.7), celecoxib (OR: 1.7; 95% CI, 1.2-3.6), o rofecoxib (OR: 2.4; 95% CI, 1.7-3.6) . Conclusioni: sia i FANS che i coxib in misura simile aumentano il rischio di emorragia gastroenterica se somministrati a pazienti anziani in trattamento con anticoagulanti orali.
Fonte: Arch Intern Med. 2005;165:189-192
Link: http://archinte.ama-assn.org/cgi/content/abstract/165/2/189

Commento di Luca Puccetti
Questo studio, sia pur retrospettivo, sembra confermare che, almeno in alcune categorie di pazienti i coxib non sono più sicuri dei FANS limitatamente al rischio di insorgenza di eventi clinici maggiori. Inoltre le differenze tra Rofecoxib e Celecoxib in merito all'interferenza con i cumarolici non sembrano influenzare significativamente i risultati. Questo dato, sia pur parziale e non inferente un' evidenza di primissimo livello, tuttavia, per la rilevanza del campione esaminato, induce a considerare molto discutibile l'attuale regolamentazione della prescrivibilità dei coxib in associazione ad inibitori di pompa, pur in assenza di studi sull'impiego degli IPP nella prevenzione degli eventi GI in corso di TAO negli anziani

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H -  Vaccino antinfluenzale e rischio di eventi cardiovascolari

Il rischio di eventi cardiovascolari aumenta dopo una  malattia infettiva ma non dopo la vaccinazione antinfluenzale e antipneumococcica.

Alcuni autori hanno esaminato l'United Kingdom General Practice Research Database, che registra i dati sanitari di più di 5 milioni di pazienti, per testare l'ipotesi se dopo una vaccinazione antinfluenzale o dopo una malattia infettiva aumentasse il rischio di infarto miocardico o di ictus.
Lo studio ha permesso di escludere che vi sia un aumento del rischio dopo vaccinazione antinfluenzale, antipneumococcica o antitetanica mentre ha evidenziato tale aumento in seguito ad una infezione delle vie respiratorie, specialmente nei primi tre giorni. L'aumento del rischio di infarto è di quasi 5 volte mentre per l'ictus è di circa 3 volte. Il rischio aumenta anche in corso di infezione urinaria, ma in modo meno pronunciato.
Smeeth L et al. Risk of Myocardial Infarction and Stroke after Acute Infection or Vaccination
N Engl J Med 2004 Dec 16; 351:2611-2618

Commento
Lo studio conferma l'ipotesi che le malattie infetttive hanno un effetto protrombotico, probabilmente perchè innescano un processo infiammatorio.
Dati tranquillizzanti invece per quanto riguarda le vaccinazioni. In particolare la vaccinazione antinfluenzale e antipneumococcica (spesso somministrate contemporaneamente a soggetti anziani o a rischio) non sono
associate ad un aumento del rischio cardiovascolare.
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I -Statine e markers di flogosi

Le statine sono in grado di agire positivamente sui marker della flogosi riducendo la PCR e gli esiti clinici in pazienti ad elevato rischio coronarico.
 
Alcuni studi hanno dimostrato che le statine ad alto dosaggio in soggetti ad elevato rischio coronarico (per esempio nel caso di sindromi coronariche acute o aterosclerosi coronarica documentata) sono utili a ridurre gli outcomes (Cannon CP et al. Comparison of Intensive and Moderate Lipid Lowering with Statins after Acute Coronary Syndromes. N Engl J Med 2004 April 8; 350:1495-1504. Studio PROVE-IT) e la progressione dell'aterosclerosi coronarica (Nissen SE et al. for the REVERSAL Investigators. Effect of Intensive Compared With Moderate Lipid-Lowering Therapy on Progression of Coronary Atherosclerosis. A Randomized Controlled Trial .JAMA. 2004 March 3; 291:1071-1080).
Ora un'analisi dei due studi ha messo in relazione l'uso delle statine, i livelli di LDL e di PCR, gli outcomes clinici e la progressione dell'aterosclerosi.
Nello studio PROVE-IT mostravano una più bassa incidenza di eventi clinici i pazienti che avevano raggiunto un valore di LDL inferiore a 70 mg/dL rispetto a chi aveva un LDL più elevato. Un beneficio tutto sommato analogo però si è osservato anche in coloro che avevano valori di PCR inferiori a 2 mg/L rispetto a coloro che avevano valori superiori e questo indipendentemente dal livello di LDL raggiunto e dal tipo di statina usata (atorvastatina o pravastatina). In realtà il gruppo trattato con atorvastatina (80 mg/die) raggiungeva più frequentemente questi valori target di LDL e di PCR  rispetto a chi era trattato con pravastatina (40 mg/die), ma quello che conta sembra non tanto in sè la statina usata e il suo dosaggio e neppure in sè i valori di LDL raggiunti, quanto la riduzione della PCR ottenuta. Per esempio nei soggetti che avevano a fine studio  un LDL inferiore a 70 mg/dL e una PCR superiore a 2 mg/L il tasso di eventi era di 3,1 per 100 persone-anno mentre era di 2,4 per chi aveva raggiunto una PCR inferiore a 2 mg/L. Nello stesso tempo tra coloro che avevano un valore di LDL a fine studio superiore a 70 mg/dL la frequenza di eventi era di 4,6 per 100 persone-anno per chi aveva una PCR maggiore di 2 mg/dL e di 3,2 per chi aveva una PCR inferiore a 2 mg/dL.
Nello studio REVERSAL si è notato che chi aveva una maggior riduzione della PCR e del colesterolo LDL aveva una minor progressione della aterosclerosi coronarica valutata tramite ultrasuonografia intra-vascolare e questo risultato veniva raggiunto soprattutto da chi era posto in terapia con alte dosi di statina. 
Fonte:
Ridker PM et al. for  the Pravastatin or Atorvastatin Evaluation and Infection Therapy–Thrombolysis in Myocardial Infarction 22 (PROVE IT–TIMI 22) Investigators . C-Reactive Protein Levels and Outcomes after Statin Therapy. N Engl J Med 2005 Jan 6; 352:20-28 
Nissen SE et al. for the Reversal of Atherosclerosis with Aggressive Lipid Lowering (REVERSAL) Investigators
Statin Therapy, LDL Cholesterol, C-Reactive Protein, and Coronary Artery Disease. N Engl J Med 2005 Jan 6; 352:29-38
 
Commento di Renato Rossi
Si sa che vi è un'associazione positiva fra valori elevati di PCR e rischio coronarico. Dato che la PCR è un indice di flogosi si è fatta strada l'ipotesi che l'aterosclerosi sia in qualche modo una malattia di tipo infiammatorio e alcune linee guida sono arrivate a proporre, insieme alla valutazione dei classici fattori di rischio universamente usati, il dosaggio della PCR (con metodica ultrasensibile) per meglio stratificare i pazienti, soprattutto quelli che hanno un rischio valutato con le carte tra il 10% e il 20%. Si sa anche che le statine hanno degli effetti pleiotropici e antinfiammmatori oltre  a quelli più noti di riduzione del colesterolo LDL.
Questi due studi confermano che le statine sono in grado di esercitare un'influenza positiva sui markers della flogosi riducendo i valori della PCR. Addirittura sembra che la riduzione della PCR sia importante tanto quanto la riduzione del colesterolo LDL, indipendentemente dalla dose e dal tipo di statina usata.  I maggiori benefici, comunque, si ottengono quando si riesce a ridurre in modo cospicuo sia LDL e PCR, cosa che si riesce a fare soprattutto con un dosaggio elevato di farmaco.
Forse in un prossimo futuro, nei pazienti in trattamento con statine, per valutare l'efficacia della terapia dovremo monitorare non solo il colesterolo LDL ma anche la PCR.
Infine un richiamo alla cautela: questi risultati sono stati ottenuti in pazienti altamente selezionati e a rischio molto elevato, non è noto se si possa automaticamente estenderli ai pazienti a rischio meno elevato della prevenzione primaria.

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L - Pergolide e valvulopatia cardiaca

L'uso della pergolide può essere associato alla comparsa di una valvulopatia cardiaca la cui incidenza al momento non può essere stimata con esattezza.

La Pergolide è una sostanza ad azione agonista dopaminergica autorizzata per il trattamento del morbo di Parkinson ed è il principio attivo della specialità medicinale Nopar® (Eli Lilly).
L'uso della pergolide può essere associato alla comparsa di una valvulopatia cardiaca la cui incidenza al momento non può essere stimata con esattezza.
Tuttavia, la possibilità di insorgenza di questo effetto indesiderato richiede che la pergolide sia utilizzata come farmaco di seconda scelta solo dopo il fallimento di altri agenti terapeutici.
Il Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto e il Foglietto Illustrativo sono stati modificati al fine di includere la restrizione delle indicazioni e nuove avvertenze e precauzioni d'uso.
L'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) in accordo con Eli Lilly, titolare dell'AIC, sulla base di queste nuove evidenze, ha deciso di divulgare una Nota Informativa Importante (Dear Doctor Letter) rivolta ai medici per assicurare un corretto uso del farmaco. Per una completa informazione sono disponibili on-line il testo completo della Nota Informativa Importante e il testo delle modifiche apportate al Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto.
Fonte: AIFA
Comunicato: http://www.agenziafarmaco.it/documenti/pergolide_ddl_final.pdf

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M - La morte cardiaca improvvisa negli epilettici potrebbe essere dovuta ad asistolia 

Chi soffre di epilessia ha un aumentato rischio di morte improvvisa ma le cause non sono ancora ben stabilite anche se probabilmente le aritmie cardiache giocano un ruolo importante.

In uno studio prospettico a 20 pazienti affetti da epilessia focale resistente ai trattamenti è stato messo un device che registrava sia gli episodi di bradicardia (frequenza < 40 bpm) sia quelli di tachicardia (frequenza > 140 bpm).
I dati registrati sono stati confrontati con gli episodi convulsivi. In 16 pazienti, durante le convulsioni, la frequenza media cardiaca era superiore a 100 bpm. In sette pazienti fu possibile registrare un episodio di bradicadia, ma questi episodi furono poco frequenti rappresentando solo il 2,1% di tutti gli eventi registrati. A 4 pazienti, a causa di periodi di bradicardia e di asistolia, venne impiantato un pace-maker e 3 di essi ebbero una asistolia potenzialmente fatale.

 Fonte: Rugg-Gunn FJ et al. . Cardiac arrhythmias in focal epilepsy: a prospective long-term study 
Lancet. 2004 Dec 18/25; 364:2212-2219

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N - Gli estrogeni nelle donne in post-menopausa comportano un aumento del rischio di patologie del tratto biliare

 L'analisi dei risultati del WHI ha permesso di ricavare molti dati e fra questi anche l'effetto della terapia con estrogeni sul rischio di sviluppare una calcolosi della colecisti. L'incidenza di eventi di qualsiasi tipo collegati con la colecisti era di 78 eventi per 10.000 donne/anno nel gruppo trattato contro 47 per 10.000/anno nel gruppo placebo nel braccio del WHI in cui si usano solo estrogeni (donne isterectomizzate) e di 55 vs 35 nelle donne del braccio WHI in cui si usavano estrogeni associati al progestinico (donne non isterectomizzate). In entrambi i bracci la terapia con estrogeni comportava un aumento del rischio di colecistite, di litiasi e di intervento chirurgico sulla colecisti.
 Fonte: Cirillo DJ et al. Effect of Estrogen Therapy on Gallbladder Disease
JAMA. 2005 Jan 19; 293:330-339.
 
Commento:
Già si sospettava che la terapia ormonale sostitutiva con estrogeni portasse ad un aumento del rischio di colecistopatie, di litiasi biliare e di interventi chirurgici sulla coleciti, ma i dati derivavano soprattutto da studi di tipo osservazionale.
I risultati del WHI, uno studio di tipo randomizzato e controllato, confermano che l'uso degli estrogeni nelle donne in post-menopausa comporta un'aumentata incidenza di patologie delle vie biliari e di interventi chirurgici collegati.
Quando si deve decidere se somministrare o meno una terapia ormonale sostitutiva bisognerà tener conto anche di questi aspetti negativi. Sempre più il ruolo della TOS appare limitato all'uso per brevi periodi nelle donne che manifestano disturbi importanti della menopausa che comportini uno scadimento della qualità della vita.
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O ASA e esomeprazolo meglio del clopidogrel per tollerabilità gastrointestinale

L'aggiunta di esomeprazolo riduce molto di più il rischio di recidiva rispetto alla sostituzione dell'ASA con clopidogrel in pazienti vasculopatici HP negativi con pregressa emorragia gastroenterica da ASA.

Sono stati considerati pazienti vasculopatici con storia di sanguinamento gastroenterico da ASA. Dopo la guarigione dell'ulcera 320 pazienti HP negativi sono stati arruolati nello studio. Tra questi 161 sono stati messi in trattamento con clopidogrel 75 mg/die e 159 con 80 mg/die di aspirina pìù 20 mg/die di esomeprazolo. L'end point predefinito era rappresentato dalla recidiva dell' emorragia gastroenterica causata da ulcera. La recidiva del sanguinamento è stata osservata in 13 pazienti tra quelli trattati con clopidogrel ed in 1 tra quelli trattati con ASA e esomeprazolo. L'incidenza cumulativa annuale del sanguinamento GI è stata dell' 8.6 percento (95 CI: 4.1 - 13.1 percento) nel gruppo clopidogrel e dello 0.7 percento (95 CI: 0 - 2.0 percento) in quello ASA e esomeprazolo (differenza: 7.9 punti percentuali; 95 CI per la diferenza: 3.4 - 12.4; P=0.001).
Conclusioni: Le evidenze dello studio dimostrano che nei pazienti vasculopatici HP negativi con pregresso sanguinamento GI da ASA, la prevenzione secondaria con l'aggiunta di esomeprazolo all'ASA è nettamente superiore alla sostituzione dell'ASA con clopidogrel. Pertanto questi risultati non supportano le attuali linee guida americane sulla prevenzione secondaria del sanguinamento GI da ASA. 
Fonte: NEJM, 2005; 352:238-244.

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P - Senza tonsille migliora la vita dei bambini con apnee 
La qualità di vita migliora nei bambini che vengono sottoposti a adenotonsillectomia per apnee notturne ostruttive.

Mediante appositi questionari è stata valutata la qualità della vita di 42 bambini con apnee notturne prima e dopo adenotonsillectomia rispetto a un gruppo di controllo di 41 bambini sottoposti al medesimo intervento per motivi non dipendenti dal russamento. I disturbi del respiro nel sonno nei bambini dipendono spesso da un’ipertrofia adenotonsillare. L’asportazione di tonsille e adenoidi porta alla guarigione nell’85-95 per cento dei casi.

Fonte: Arch Otolaryngol Head Neck Surg. 2005;131:52-57
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Q Clortalidone efficace e sicuro nei diabetici

 Nello studio SHEP (Systolic Hypertension in the Elderly Program) si dimostrò che il trattamento dell'ipertensione sistolica isolata nell'anziano è utile a ridurre le complicanze dell'ipertensione. Viene ora pubblicata una ulteriore analisi del trial, con follow-up a 14,3 anni, nella quale è stata valutata la mortalità sia nel gruppo trattato con clortalidone che nel gruppo trattato con placebo in relazione alla presenza o allo sviluppo di diabete. La mortalità globale era del 19,0% nel gruppo clortalidone e del 21,7% nel gruppo placebo. Tra i pazienti diabetici randomizzati a clortalidone la mortalità totale era del 20% più bassa che nel gruppo dei diabetici randomizzati a placebo. Inoltre il diabete comparso durante la terapia diuretica era lieve e generalmente non associato ad un aumento della mortalità.
 Fonte: Am J Cardiol 2005;95:29-35.
 Commento di Renato Rossi
Le ultime linee guida americane (JNC 7) consigliano, come farmaci di prima scelta nell'ipertensione non complicata, i diuretici tiazidici, eventualmente associati alle altre classi di antipertensivi. Tuttavia vari studi, in particolare lo studio ALLHAT, hanno evidenziato che i pazienti trattati con diuretici hanno un aumento del rischio di insorgenza di diabete. In realtà questo non si traduce poi in outcomes peggiori per cui si può ipotizzare che si tratti solo di un effetto "cosmetico" dei tiazidici. Qualcuno però ha fatto notare che gli studi hanno un follow-up troppo breve per evidenziare complicanze legate a questi casi di diabete di nuova insorgenza. Altri richiamano ad un certa attenzione nella prescrizione di tiazidici ai diabetici.
I risultati a lungo termine dello studio SHEP sono tranquillizzanti sotto tutti questi aspetti perchè il clortalidone si è dimostrato efficace anche nei diabetici. Inoltre i casi di diabete insorti durante la terapia con il diuretico sembrano di scarsa importanza clinica non essendo gravati da un aumento di mortalità. 

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 Fluoxetina piu' ormoni (HRT) o solo ormoni nella depressione post menopausa?

 L’obiettivo dello studio è stato quello di comparare gli effetti  tra un trattamento combinato fluoxetina-HRT e il trattamento con soli ormoni.
Per verificare gli effetti dei due trattamenti 54 donne in menopausa affetti da sindrome depressiva sono state randomizzate in due gruppi. 
Un gruppo e' stato trattato con fluoxetina più trattamento ormonale (hanno ricevuto, nello specifico, fluoxetina (20mg, qd, po)e un uso ciclico di estrogeni (0.625 mg)e medroxyprogesterone 5 mg). 

Un gruppo e' stato trattato con soli ormoni (sono stati somministrati, ciclicamente, estrogeni (0.625 mg) e medroxyprogesterone acetato, 5 mg.).
A tutti i soggetti dello studio è stato somministrato il “Hamilton Depression score” (HAMD) e il “Kupperman menopause index” (KMI) alla settimana 0,1,2,3,4,6,e 8 del trattamento.
All’inizio del trattamento non sono state rilevate differenze significative tra i due gruppi, che apparivano omogenei e confrontabili. 
Con il passare del tempo la differenza tra i due gruppo aumentava invece di significatività: il "tasso di salute" dei due gruppi divergeva notevolmente :  il gruppo di soggetti in trattamento misto e quello trattato con soli ormoni presentavano rispettivamente un tasso del 92% e del 48%.
Concludendo: e' utile nella depressione post-menopausa, associare fluoxetina al trattamento ormonale in quanto il tasso di miglioramento clinico nelle terapie combinate e' significativamente maggiore rispetto al trattamento con soli ormoni.
Guido Zamperini
Fonte: Zhonghua Fu Chan Ke Za Zhi. 2004 Jul;39(7):461-4.  

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I nuovi antidepressivi nella gravidanza

 La scelta di un antidepressivo in caso di gravidanza e' un problema di non facile soluzione, in quanto la depressione e' una condizione che merita la massima attenzione da parte del medico, sia nei soggetti gia' conclamati che in quelli in cui si possa temere lo sviluppo di una forma cosiddetta "post partum". Il proble si complica ulteriormente alloche' vengano presi in esame i farmaci di nuova o recente introduzione. 
Sono stati esaminati circa 600 casi seguiti dal centro del Dipartimento di Medicina di Famiglia, School of Medicine, Karadeniz Technical University.
A 21 di questi soggetti sono stati somministrati antidepressivi di nuova concezione, come ad esempio Venlafaxina, mirtazepina, nefazodone.
Nello specifico, nel primo trimestre di gravidanza, a 10 soggetti è stata somministrata venlafaxina, ad un soggetto è stata somministrata venlafaxina insieme a mirtazapina, ad 8 casi è stata somministrata solo la mirtazapina, o mirtazepina unita ad altri farmaci diversi, a 2 persone è stato somministrato nefazodone. 
Dei 21 casi, 17 (80,9%) ha avuto bambini in salute, 3 (14,3%) ha deciso di interrompere la gravidanza, e 1 (4,8%) aborto spontaneo è stato osservato in un caso dove era stato somministrato mirtazapina, alprazolam, diazepam e trifluoperazina.
Non sono state osservate anormalità congenite e relative allo sviluppo nei bambini in un lasso di tempo di 12 mesi.
La scarsa numerosita' dello studio non permette di trarre conclusioni definitive, ma la somministrazione di antidepressivi di ultima generazione non sembra associato a un particolare rischio di teratogenicita'.
Guido Zamperini
Fonte: Reprod Toxicol. 2004 Dec;19(2):235-8
.

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T  La Duloxetina nel disturbo depressivo maggiore del paziente anziano.

 L’efficacia della duloxetina, un inibitore della serotonina e della norepinefrina, è stata valutata all’interno di uno studio finalizzato al trattamento del disturbo depressivo maggiore e del dolore ad esso collegato nei pazienti di età uguale o maggiore a 55 anni. 
Il metodo utilizzato per testare l’efficacia del prodotto è stato quello di strutturare uno studio multicentrico a gruppi paralleli, nei quali i pazienti venivano randomizzati in doppio cieco fra la somministrazione della duloxetina (60 mg/die N=47) e la somministrazione di un placebo (N=43) per 9 settimane. 
L' evoluzione della condizione depressiva è stato misurata mediante apposito test (Ham-D-17) mentre il dolore è stato monitorato mediante le classiche scale visuo-analogiche del dolore. 
Gli effetti collaterali sui pazienti con 55 o più anni sono stati ricavati da 6 studi randomizzati in doppio cieco, nei quali i pazienti depressi ricevevano placebo (N=90) e duloxetina (40mg/die; 120mg/die N=119).
RISULTATI: La combinazione dei risultati dei due studi ha mostrato che la duloxetina è superiore al placebo. La possibilità stimata di remissione della condizione depressiva dei pazienti trattati con duloxetina (44.1) è risultata nettamente superiore al placebo (16.1). La riduzione del dolore è anch’essa superiore nel gruppo trattato che in quello non trattato.
Guido Zamperini
Fonte: Am J Geriatr psichiatry. 2005 Mar;13(13):227-35

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U Non solo farmaci per l' incontinenza.

Altre soluzioni per risolvere un antipatico problema

In risposta alla crescita della popolazione anziana con incontinenza le Aziende farmaceutiche stanno sviluppando nuovi medicinali indirizzati al trattamento dell’incontinenza stessa. 
Prima di prescrivere un farmaco contro l’incontinenza, però, sarebbe utile che il medico determinasse meglio sia la natura che la causa del problema. Una valutazione accurata di questi elementi può, infatti, indirizzare a trattamenti diversi, mirati specificatamente al tipo di incontinenza del paziente.
Uno dei migliori trattamenti alternativo ai farmaci e' ad esempio, per alcuni tipi di incontinenza, la terapia "comportamentista", basata sull’allenamento del paziente ad abituarsi ad un corretto uso della muscolatura pelvica, al fine di limitare il problema. E' stato infatti evidenziato come una corretta funzionalita' della muscolatura pelvica possa ridurre notevolmente gli episodi di incontinenza.
Altre soluzioni di tipo più specificatamente medico, in aggiunta alla terapia comportamentista,  possono ulteriormente ampliarne i benefici: sono utili ad esempio, in alternativa o insieme ai farmaci, i supporti intravaginali, le iniezioni periuretrali, fino agli interventi chirurgici correttivi.
Le soluzioni "mediche" falliscono invece nel caso di incontinenza da stress; in questo settore la terapia comportamentale risulta l' unico rimedio efficace.
Guido Zamperini
Fonte: Am Fam Phisician. 2005 Jan 15;71(2):329

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Z- News prescrittive di Marco Venuti (dalla Gazzetta Ufficiale)

Antiepilettici (ATC N03A), escluso valproato - Modificate le indicazioni per quanto all'uso durante la gravidanza e l'allattamento: le nuove indicazioni sono:
"Alle pazienti che potrebbero iniziare una gravidanza o che siano in età fertile deve essere fornita una consulenza specialistica. La necessità del trattamento antiepilettico deve essere rivalutata quando la paziente pianifica una gravidanza. Il rischio di difetti congeniti è aumentato di un fattore da 2 a 3 volte nella prole di madri trattate con un antiepilettico, quelli più frequentemente riportati sono labbro leporino, malformazioni cardiovascolari e difetti del tubo neurale. La politerapia con farmaci antiepilettici può essere associata con un rischio piò alto di malformazioni congenite della monoterapia. Perciò è importante che si pratichi la monoterapia ogni volta che sia possibile. Non si deve praticare una brusca interruzione della terapia antiepilettica per il pericolo di una ripresa di attacchi epilettici che potrebbe avere gravi conseguenze sia per la madre che per il bambino." 

Valproato 
- Modificate le indicazioni per quanto all'uso durante la gravidanza e l'allattamento: le nuove indicazioni sono:
"Il valproato è l'antiepilettico di scelta in pazienti con alcuni tipi di epilessia come quella generalizzata con o senza mioclono o fotosensibilità. Per l'epilessia parziale il Valproato dovrebbe essere usato solo in casi resistenti ad altri trattamenti. Una maggiore incidenza di anomalie congenite comprese ipospadia, dismorfia facciale e malformazioni degli arti, è stata riportata nella prole nata da madri con epilessia che erano sono state trattate con il Valproato rispetto al trattamento con altri farmaci antiepilettici. Il valproato durante la gravidanza dovrebbe essere prescritto come monoterapia alla più bassa dose efficace, in dosi frazionate e se possibile in forme a rilascio prolungato. Esiti anomali della gravidanza tendono ad essere associati con dosi giornaliere più alte e con elevate dosi per ogni somministrazione. E' stato dimostrato che valori elevati di picco plasmatico ed elevate quantità per ciascuna somministrazione sono associate con difetti del tubo neurale. L'incidenza dei difetti del tubo neurale aumenta con l'incremento del dosaggio, specialmente al di sopra di 1000mg/die. L'uso del valproato è associato con difetti del tubo neurale con incidenza dall'1% al 2%. L'integrazione dietetica con acido folico prima della gravidanza, può ridurre l'incidenza dei difetti del tubo neurale nei neonati di donne ad alto rischio. Le pazienti dovrebbero prendere in considerazione di assumere 5 mg di acido folico al giorno quando pianificano una gravidanza. Sono stati riportati casi molto rari di sindrome emorragica in neonati le cui madri hanno assunto Valproato durante la gravidanza. Questa sindrome è correlata alla ipofibrinogenemia. Sono stati riportati anche casi di afibrinogenemia che possono essere fatali. Pertanto nei neonati devono essere controllati: conta piastrinica, livello plasmatico del fibrinogeno, test di coagulazione e fattori della coagulazione. Nelle donne che diventano gravide devono essere condotti indagini diagnostiche durante la gravidanza come ad esempio ecografie o altre tecniche appropriate. Non ci sono prove che suggeriscano che le madri che assumono valproato non debbano allattare." 

Flavis 
- Modificate le indicazioni terapeutiche: le nuove indicazioni sono:
"Deterioramento cognitivo di grado lieve nell'anziano". 

Naropina
- Modificate le indicazioni terapeutiche: alle vecchie indicazioni è stato aggiunto, relativamente al trattamento del dolore acuto:
"blocco continuo dei nervi periferici per infusione continua o per iniezioni in bolo intermittenti, per esempio per il trattamento del dolore post-operatorio".

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APPROFONDIMENTI

AAA Il medico di famiglia allunga la vita 

E' meglio avere piu' medici generici e qualche specialista in meno? 
Alcune riflessioni a margine di uno studio americano di politica sanitaria. A cura di Renato Rossi

Nell'ultimo decennio il ricorso alla medicina specialistica ha avuto un incremento esponenziale in tutti i paesi occidentali mentre la medicina di base tende, almeno in Italia,  ad occupare sempre più una posizione subalterna.
Questo comporta un aumento delle spese per i servizi sanitari ma comporta anche benefici sulla salute?
Uno studio messo online il 15 marzo 2005 da Health Affaires, un giornale che si occupa di problematiche di politica sanitaria pubblicato solo sul web, lascia emergere più di qualche ragionevole dubbio. In questo studio i ricercatori hanno valutato il numero di decessi per 1.000 abitanti nel periodo 1996-2000 di oltre 3000 contee statunitensi (il 99.9% di tutte le contee degli USA) mettendoli in relazione con il numero di medici di medicina di base e di medici specialisti presenti in ogni singola contea. 
I dati sono stati corretti per vari fattori di confondimento come il reddito, il livello occupazionale, la disoccupazione, la località (zona metropolitana o rurale),  presenza di anziani e di afro-americani. Alla fine i risultati appaiono sorprendenti: le contee con una percentuale più elevata di medici di cure primarie mostrano una mortalità più bassa ma, quello che è peggio, avere una quantità maggiore di specialisti non sembra portare agli stessi effetti positivi.
Non è detto che quanto risulta da questo studio sia valido per paesi diversi e con un'organizzazione medica differente da quella USA, ma si tratta comunque di dati su cui dovrebbero riflettere i responsabili di politica e di economia sanitaria.
Soprattutto se  a questo studio se ne affianca un altro, di due anni fa (Ann Int Med 2003 Feb 18; 138: 273-87), in cui si dimostrò che gli anziani che vivono in alcune regioni degli Stati Uniti in cui l'uso delle risorse sanitarie è più elevato non hanno più probabilità di avere dei benefici maggiori in termini di salute rispetto a chi vive in regioni in cui si spende meno.
Insomma spendendo di più in cure mediche e privilegiando la medicina specialistica si ottengono degli esiti migliori? Pur con il beneficio del dubbio i risultati trovati indicano che può anche non esserci una relazione lineare tra spesa elevata e medicina specialistica e benefici ottenuti. 
Questo, a pensarci bene, potrebbe non essere così sorprendente se si pensa che la medicina specialistica, oltre ad essere più costosa,  tende ad un maggior ricorso a farmaci nuovi il cui profilo di sicurezza è meno noto,  a procedure chirurgiche e ad accertamenti invasivi che possono portare ad un
incremento degli eventi avversi di natura iatrogena.
Forse è tempo di ripensamenti : dirigere la prua verso una medicina più soft e meno invasiva potrebbe alla fine rivelarsi vincente. 
Renato Rossi

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MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA
Rubrica gestita da D.Z. per ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica

AA1  Le responsabilita' del medico nel caso di doping
Quando lo sport confina con l' abuso

A margine dei recenti casi sportivi, che hanno coinvolto in prima persona il medico della Juventus, e’ utile fare un po’ di chiarezza.
Benche’ molto spesso le due cose vengano confuse tra loro, esiste una distinzione fondamentale tra "doping" e " abuso di stupefacenti" . Infatti si tratta di questioni del tutto diverse: benche’ alcuni farmaci possano appartenere ad entrambi i gruppi (ad esempio alcuni anfetaminici) non e’ detto che cio’ avvenga sempre. 
Per gli stupefacenti la legge ha stabilito in modo inequivocabile le indicazioni, la prescrizione, la distribuzione e l’ uso di tali farmaci per tutti i soggetti, con differenziazioni dovute all’ iscrizione in verie tabelle che dettagliano analiticamente l’ uso e la prescrivibilita’ di tali farmaci L’ uso di tali farmaci al di fuori delle indicazioni autorizzate costituisce di per se’ reato penale.
Le sostanze "dopanti" sono invece sostanze o farmaci di uso comune, liberamente prescrivibili per una serie svariata di patologie piu’ o meno gravi, di uso molto diffuso. Alcune di queste non sono neppure veri e propri farmaci. Il loro uso non costituisce di per se’ reato.
Il reato si concretizza solo quando  la cessione o l’ uso avvengano in concomitanza con attivita’ sportive e siano finalizzate all’ alterazione dei risultati.
Non e’ la sostanza in se’ che fa il doping, ma e’ l’uso che se ne fa: il tentativo di alterare, mediante tali sostanze, le performance degli atleti. "Atleta dopato" non e' quindi assolutamente sinonimo di "atleta drogato".
Le norme sul doping:  "costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive ... idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ... sono equiparate al doping la somministrazione di farmaci e l’adozione di pratiche non giustificate da condizioni patologiche, finalizzate e comunque idonee a modificare i controlli sull’uso dei farmaci delle sostanze… "
Vengono quindi considerate "dopanti", qualora assunti da un atleta, tutta una serie di sostanze che, usati in circostanze diverse, sarebbero da considerare farmaci utili o addirittura salvavita. 
Allo scopo di controllare meglio il fenomeno doping, il Ministero della Sanita’ ha istituito la Commissione per la Vigilanza e il controllo sul Doping, e ha anche costituito, aggiornandolo periodicamente, l’elenco delle sostanze dopanti. In questo elenco sono compresi farmaci di importante effetto clinico come i beta bloccanti, i corticosteroidi, gli anestetici locali, i diuretici, senza contare i tristemente famosi anabolizzanti, e le emotrasfusioni. Tra le sostanze "dopanti" siano stati inclusi  anche principi attivi solitamente considerati innocui o usati per patologie del tutto diverse, come ad esempio: Caffeina, Efedrina, Clortalidone, Idroclorotiazide, Furosemide e altri diuretici, Alcool, Cortisonici, Betabloccanti, Anestetici locali. 

Alcune norme di interesse per il medico:  

-  Legge 14/12/2000 n. 376, pubblicata sulla G.U. del 18/12/2000 n. 294 stabilisce che "salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato, e’ punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire 5 milioni a lire 100 milioni, chiunque procura ad altri, somministra, o assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive ricomprese nelle classi previste dall’art. 2 comma 1, che non siano giustificati da condizioni patologiche e che siano idonee a modificare le condizioni psicofiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti .... . La pena e’ aumentata se dal fatto deriva un danno per la salute, se il fatto e’ commesso nei confronti di un minorenne, se il fatto e’ commesso da un componente o da un dipendente del CONI, se il fatto e’ commesso da chi esercita una professione sanitaria, in questo caso consegue l’interdizione temporanea all’esercizio della professione". 
Non solo:  "chiunque commercia i farmaci .... attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere e da altre strutture che detengono farmaci direttamente, destinati all’utilizzazione sul paziente, e’ punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da lire 10 milioni a lire 150 milioni". 
Per evitare l’ aggiramento delle norme mediante la distribuzione dei farmaci dopanti sotto forma di galenici (preparati dal farmacista e quindi non risultanti tra le comuni prescrizioni del SSN) la legge prevede appunto che le preparazioni galeniche, officinali o magistrali che contengono i principi attivi appartenenti alle classi farmacologiche vietate, sono prescrivibili solo dietro presentazione di ricetta medica non ripetibile; il farmacista e’ tenuto a conservare l’originale della ricetta per sei mesi.
E’ quindi evidente come diversi soggetti possano venire implicati nel compimento di tali reati: il medico che incautamente avesse prescritto tali farmaci (o il farmacista che li distribuisse irregolarmente) incorrerebbe, oltre alle pene detentive e pecuniarie, anche nell’ interdizione all’ esercizio professionale; alle "sole" pene detentive e pecuniarie incorrerebbero invece il procacciatore, il custode, il distributore, l’ eventuale importatore.  

Le leggi:

I farmaci stupefacenti sono regolati dal D.L. 539 del 30/12/92 e successive modificazioni (fondamentalmente dalla legge 8/2/2001, n. 12, G. U. n. 41 del 19/2/01).
Le sostanze dopanti sono disciplinate essenzialmente dal Decreto 31/10/2001 n. 440, e dalla Legge 14 Dicembre 2000 n. 376 e succ. modificazioni
Il Codice Deontologico (art. 76) vieta espressamente al medico di consigliare, prescrivere o somministrare trattamenti dopanti. Queste regole forse non sono abbastanza rispettate, ma le conseguenze di un incauto comportamento possono essere gravi.

Daniele Zamperini
 
Guido Zamperini

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ML1 Chi simula malattie, e' colpevole di falso ideologico. Il datore di lavoro ha diritto di essere informato.
Il lavoratore che inganna il medico e' colpevole di falso ideologico; Il lavoratore, in seguito a contestazione disciplinare del datore di lavoro, deve fornire le informazioni richieste, ne' puo' tricerarsi dietro il diritto alla riservatezza.. (Cassazione penale 10 giugno 1999 n. 7468; Cassazione 27 luglio 1994 n. 6982).

Benche' non recentissima, questa sentenza puo' avere importanti risvolti nell' attivita' professionale dei medici di famiglia in quanto prende in considerazione una fattispecie probabilmente frequente ma generalmente "sommersa": quella del lavoratore che chieda un certificato di malattia simulando infermita' che non ha.
Abbiamo gia' scritto in altra sede come il medico possa (e in qualche caso, debba) rilasciare la certificazione di malattia anche in caso di malesseri soggettivi qualora, in scienza e coscienza e sulla base di quanto riferito, li ritenga attendibili.  In questi casi e' possibile che un "esperto" riesca a trarre in inganno il sanitario, tradendo il rapporto di fiducia. La sentenza in oggetto riguarda proprio uno di questi casi.
La Cassazione ha quindi stabilito che il comportamento del lavoratore che, simulando la malattia, trae in inganno il proprio medico inducendolo a certificare una infermità inesistente o più grave del reale è stato qualificato come falso ideologico in certificato, ex artt. 48 e 480 cod. pen. . 

In altra occasione la Corte ha preso in considerazione il caso di un' assenza dal lavoro fortemente sospettata, dal datore di lavoro, di falsita', e quindi contestata mediante procedimento disciplinare. La Cassazione ha affermato che la legge oggi non obbliga il lavoratore a comunicare al datore la diagnosi, ovvero la natura dell’impedimento, né tanto meno le terapie praticate per curarsi. Ma il datore ben può averne acquisito legittimamente la conoscenza; e può comunque avere maturato sulla base di altri elementi e circostanze il giustificato sospetto o la convinzione circa l’inesistenza dell’impedimento. Deve considerarsi in tal caso legittima, anche sulla base del solo sospetto indotto dalle circostanze e senza che sia stato esperito il controllo previsto dall’art. 5 St.lav., la contestazione al lavoratore dell’assenza come mancanza disciplinare, alla quale il lavoratore ha l’onere di rispondere fornendo tutte le informazioni e i documenti utili a provare la sussistenza e la gravità della malattia. Quando il lavoratore non adempia questo onere in sede di procedimento disciplinare, il datore di lavoro convinto del carattere abusivo dell’assenza ben può adottare il provvedimento disciplinare adeguato, in relazione alla durata dell’assenza stessa, affrontando il rischio della verifica giudiziale che può seguirne; in tal caso il lavoratore non può eccepire in giudizio il proprio diritto alla riservatezza per trincerarsi dietro i certificati medici esibiti, ma deve fornire l’indicazione della diagnosi, e la prova degli accertamenti eseguiti in funzione di essa e delle terapie prescritte dal medico ed effettivamente praticate.
Daniele Zamperini

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ML2 Lavora solo 49 giorni in due anni, condannata a sette mesi per truffa

 La Cassazione ha confermato la condanna per truffa  - sette mesi e 15 giorni di reclusione e 750 euro di multa -  nei confronti di Francesca G., una dipendente statale del Provveditorato agli Studi di Como che in due abbi era stata presente in ufficio solo per 49 giorni pur continuando a ricevere lo stipendio tutti i mesi.
La donna era riuscita a procurarsi dei certificati medici che attestavano patologie anche se molto lievi.
Alle visite di controllo la ASL aveva confermato lo stato di malattia della dipendente. Per questo in primo grado Francesca era stata assolta. In appello, invece, i giudici la dichiararono colpevole di truffa in quanto "le visite di controllo a lei favorevoli, erano state condotte in modo superficiale e compiacente e certamente non sussisteva l' efficacia invalidante delle patologie addotte a giustificazione dei lunghissimi periodi di assenza dal lavoro".
Invano contro questo verdetto la statale assenteista ha protestato in Cassazione. La VI Sezione penale di Piazza Cavour, infatti, ha rigettato in pieno il suo ricorso.
Fonte: "Il Messaggero" 18/1/01 - Roma.

Commento: In attesa di conoscere in esteso le motivazioni della sentenza, e' interessante osservare come la Corte non abbia tenuto alcun conto ne' della certificazione del Medico di Famiglia, ne' di quella dei medici di controllo della ASL, considerandole tutte "superficiali e compiacenti".
Non sappiamo se e quali provvedimenti siano stati presi verso questi medici, ne' se il giudizio espresso dalla Corte (e dai Tribunali di merito prima) sia basato su una Consulenza Tecnica, e quali caratteristiche siano state prese in considerazione per il giudizio finale.
Ci sono pero' due considerazioni da fare: i medici di famiglia, trattandosi di dipendente statale, potrebbero aver certificato semplicemente, su ricettario intestato, la prognosi "clinica" di patologie magari banali, che la paziente potrebbe aver fatto valere, presso il proprio ufficio, come prognosi "lavorativa". I medici di controllo della ASL, invece, hanno lo specifico compito di valutare l' incidenza della malattia accusata sulla capacita' lavorativa del soggetto; non averlo fatto in modo adeguato puo' costituire elemento di negligenza o peggio.  Le posizioni dei due sanitari, quindi, possono differire notevolmente.
E' ovvio, comunque, che per una valutazione precisa bisognera' valutare la sentenza in esteso.
Daniele Zamperini

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MLL1   Il medico e la Legge: cap. 12 Il nesso di causalità (Avv. Nicola Todeschini)

L'individuazione in capo al sanitario di una responsabilità in ordine all'evento dannoso verificatosi è strettamente legata alla riconducibilità causale[1] dell'evento all'azione od omissione del sanitario. 
Il tema fondamentale del nesso di causalità assume, anche e soprattutto in questa disamina, un ruolo del tutto peculiare, stante l'implicazione con altri temi qui appena accennati, quale il problematico rapporto tra medici legali o comunque specialisti che operano anche come consulenti di parte o d'ufficio da un lato e gli altri operatori sanitari dall'altro. 
           
Ai fini della corretta determinazione del rapporto di causalità, trovano applicazione, anche in sede civilistica, i principi espressi nelle norme penali di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., in conformità con quanto affermato dalla giurisprudenza della Cassazione[2].
Il nodo che il disposto normativo lascia irrisolto, e sul quale dottrina e giurisprudenza hanno prodotto gli sforzi interpretativi più consistenti, è quello dell'esatta configurazione del rapporto tra evento dannoso e l'azione od omissione. Secondo la formulazione tradizionale della teoria[3] della condicio sine qua non sono <<causa>> dell'evento gli antecedenti senza il verificarsi dei quali l'evento non si sarebbe prodotto, individuati sulla scorta del processo della c.d. eliminazione mentale secondo il quale la condotta è condicio sine qua non dell'evento <<se non può essere mentalmente eliminata senza che l'evento stesso venga meno>>[4]
Pertanto sarà da analizzare, sotto il profilo etiologico, l'iter etiopatogenetico, riferendosi al modello della c.d. sussunzione sotto leggi scientifiche, secondo il quale l'antecedente storico assume rilievo, dal punto di vista della ricerca etiologica, quando può affermarsi, sulla scorta delle risultanza scientifiche, che entra a far parte del novero di quegli antecedenti che, secondo una <<successione regolare, omogenea e conforme ad una legge dotata di validità scientifica>>, determinano eventi del tipo di quello in concreto verificatosi. 
Il rilevo che l'art. 1223 cod. civ.[5], relativo al risarcimento del danno da inadempimento -richiamato dall'art. 2056 cod. civ. e pertanto applicabile anche al risarcimento in materia di responsabilità aquiliana- limiti il risarcimento medesimo alla <<conseguenza immediata e diretta>>, non attiene, come osservato dal Barni[6], alla necessità di intravedere un criterio cronologico e di congruità, ma indica piuttosto i contorni del contenuto della responsabilità stessa. E di tale impostazione sembra essersi appropriata anche la Corte di Cassazione[7] quando ha affermato che <<ai  fini del  sorgere  dell'obbligazione di risarcimento, il nesso di causalità  tra fatto  illecito  ed  evento dannoso può essere anche indiretto e  mediato, essendo all'uopo sufficiente che il primo abbia posto  in   essere uno  stato di cose senza il quale il secondo non si sarebbe  prodotto  e che  il  danno  si trovi  con   tale  antecedente necessario in   un  rapporto   eziologico   normale   e  non   fuori dell'ordinario>>.
In conclusione il criterio della regolarità casuale fungerebbe da correttivo del criterio espresso dall'art. 1223 cod. civ., nel senso di ricomprendere  nell'area dei danni risarcibili anche quelli che, pur essendo mediati e indiretti, <<rientrano tuttavia nella serie delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto […]>>[8].
           
Le connessioni con la configurazione del regime eventualmente diversificato dell'onere della prova saranno trattate nel paragrafo successivo. 
Sotto il profilo medico-legale il nodo della questione, al quale ritengo opportuno accennare, è per dirla con un'espressione del Fiori[9], <<il problema della discendenza da un fattore causale di rilevanza giuridica>>. Se infatti l'iter patogenetico del danno, che è il percorso tra l'evento dannoso e la sua etiologia[10], in talune circostanze risulta palese e scientificamente certo, in altri casi si consegue solo agli esiti di uno studio, quello per l'appunto patogenetico, sui ritmi, tempi e modi di sviluppo.
Quindi il compito del medico legale, nella sua funzione di ausilio alla decisione del giudice, è quello di verificare la causalità materiale dal punto di vista etiopatogenetico, nonché la causalità giuridica sotto il profilo della responsabilità giuridicamente rilevante. Ma non potendosi conseguire di norma giudizi improntati alla certezza sull'iter patogenetico del danno, soccorreranno il medico legale e la successiva valutazione del giudice i criteri che discendono dall'applicazione del principio della probabilità statistica, al quale ha attinto copiosamente la stessa giurisprudenza[11]
           
Nell'ottica dell'adeguamento di tali metodologie alle nuove tecniche di elaborazione dei dati e di consultazione delle basi di dati, può risultare d'ausilio, alla formulazione di valutazioni probabilistiche, anche l'elaborazione che il calcolatore è in grado di offrire all'operatore che lo consulti, soprattutto, come in questo caso, quando ci si trovi a porre in essere giudizi che tanto più sono consapevoli quanto più possono, sotto questo profilo, essere il risultato della valutazione di una quantità di dati più consistente possibile. Il vero ostacolo, o meglio la vera professionalità dell'interprete di questi dati, così come elaborati dalla macchina, sta nella capacità di farne un uso che funga da ausilio all'applicazione di consapevoli criteri di valutazione, senza dimenticare che comunque l'elaborazione elettronica dei dati può tenere in considerazione solo le varianti che sono state inserite preventivamente, e che pertanto fornisce risultati di operazioni matematiche da valutarsi congruamente. 
           
Il rischio che secondo alcuni autori[12] si cela dietro l'introduzione del criterio probabilistico nella valutazione del nesso di causalità, è quello di  estremizzare la valutazione, confondendo la ricorrenza del dovere del medico d'intervenire per tentare di salvare il malato, con l'individuazione del nesso di causalità. 
Si intende con ciò affermare che se da un lato il dovere del medico d'intervenire per salvare il malato sussiste anche quando le probabilità di guarigione sono minime, altra dovrebbe essere la valutazione in termini probabilistici ove si volgesse l'attenzione alla ricorribilità del nesso di causalità tra la condotta del medico e l'evento dannoso. La necessità di configurare e adeguare la teoria della condicio sine qua non, pur integrata dalle valutazioni in termini di probabilità, si pone sul piano anche dell'individuazione e valutazione -in senso negativo- di fattori eccezionali che turbino il processo di causalità che si dice adeguata, volendo in tal modo significare l'esigenza che non siano imputati all'azione od omissione del sanitario quegli eventi dannosi che non rientrano nel normale sviluppo etiopatogenetico, in quanto <<anormali e atipici>> ovvero eccezionali, giacché posti al di fuori del processo causale anzidetto.

Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale Consumerlaw

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MLL2  Il medico e la legge: cap13 L'onere della prova: una questione aperta (Avv. Nicola Todeschini)

La disamina delle problematiche relative all'onere della prova, soprattutto con riferimento all'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale dei disposti legislativi, abbisogna di alcuni chiarimenti relativi ai lineamenti generali in tema di prova[1]
Il percorso storico del principio di base espresso nell'antico brocardo actori incumbit probatio e nell'altro ei incumbit probatio qui dicit non qui negat,  si ritrova nella lettura dell'art. 2697 cod. civ., secondo il quale <<Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda>>.
Orbene, l'interpretazione che qui s'accoglie[2] individua nell'articolo in esame due fondamentali funzioni: da un lato quella di ripartire l'onere della prova, dall'altro quella di consentire comunque al giudice di decidere, accogliendo o rigettando la domanda, sulla base del collegamento sistematico con l'art. 116 cod. proc. civ. che, affermando il principio del libero convincimento, completa il quadro. Di conseguenza il giudice non può limitarsi ad un mero non liquet ma decidere, applicando, se gli elementi offerti non consentono il raggiungimento della prova, la regola dell'art. 2697 cod. civ. 
Giova inoltre ribadire che l'applicazione di quest'ultima trova un proprio spazio solo quando non esistono regole particolari sull'onere  della  prova, quale quella -che qui interessa- dell'art. 1218 cod. civ.[3] 
A ben vedere, peraltro, la scelta terminologica[4] operata dal legislatore - mi riferisco al termine e soprattutto al concetto di <<onere>>- sembra non soddisfare pienamente; normalmente infatti il concetto di onere sottende il rapporto esistente tra l'esercizio di una determinata facoltà e il conseguimento di un interesse. Ebbene, se l'accezione accolta dal legislatore, nella formulazione dell'articolo in oggetto, fosse stata veramente quella tradizionale poc'anzi descritta, se ne dovrebbe dedurre che tutte le volte che la parte sulla quale grava l'onere della prova non vi provveda, dovrebbe derivarne l'impossibilità di conseguire l'interesse o il risultato al quale si tende. Ma non è così.
Infatti il giudice può decidere in senso favorevole anche se l'attore non fornisce la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, quando emergano prove, a quest'ultimo favorevoli, provenienti dalla controparte o da un terzo che sia intervenuto nel giudizio, talché dovrà decidere in senso sfavorevole a chi non ha dimostrato i fatti che costituiscono il fondamento della propria pretesa solo quando gli sia impossibile decidere tenendo in considerazione tutti gli elementi che siano stati acquisiti al processo.
Ne consegue che nella situazione esaminata ci si trovi al cospetto non tanto di un onere, nel senso sopra descritto, piuttosto di un <<aumento del rischio>> -non di un'automatica impossibilità di veder soddisfatta la propria pretesa- ricollegato al mancato soddisfacimento del <<comportamento prescritto>> dall'art. 2697 cod. civ. 
           
Svolte queste brevi considerazioni preliminari, è possibile affrontare più specificamente le problematiche sottese alla prova della responsabilità in ambito sanitario, e all'elaborazione giurisprudenziale che ne ha caratterizzato il delinearsi.
In primo luogo, in dottrina, si discute sulla configurabilità di un autonomo obbligo di chiarimento che potrebbe sussistere in capo a coloro che non sono onerati ai sensi dell'art. 2697 cod. civ. Si può notare come tale aspetto controverso possa assumere peculiare rilievo proprio nel caso delle azioni di responsabilità professionale, laddove si realizza una fattispecie caratterizzata dalla circostanza che il paziente si trova quasi sempre sprovvisto della documentazione e dei mezzi di prova per far valere la propria pretesa. Quindi per i fautori della tesi che privilegia l'individuazione autonoma di un obbligo di chiarimento, quest'ultimo lo si dovrebbe rinvenire in capo ai sanitari, come accade in altri Paesi. Ad ogni buon conto la giurisprudenza italiana si è attestata su posizioni diverse, preferendo alleggerire la posizione del tutto peculiare del malato limitandone l'onere probatorio, e ponendo piuttosto in capo al sanitario l'onere di provare l'adeguatezza della propria prestazione professionale, prestando però il fianco ad una critica, ovverosia quella di aver trattato, quasi confondendoli, onere della prova e obbligo di chiarimento.
Conseguenza immediatamente apprezzabile è quella che si assiste così allo spostamento del rischio del mancato convincimento del giudice dall'onerato, ex art. 2697 cod. civ., all'altra parte, sulla quale sarebbe semmai gravato esclusivamente l'onere di chiarimento.
Ma il nostro ordinamento giuridico prevede anche altre regole riguardanti l'onere della prova, che comportano conseguenze differenti. Tra queste le c.d. presunzioni iuris tantum -che ammettono cioè la prova contraria- le quali, al pari dell'art. 2697 cod. civ., da un lato ripartiscono l'onere della prova, dall'altro stabiliscono una regola di giudizio, indicando al giudice come deve decidere la controversia ove la parte che risulta onerata non abbia fornito la prova richiesta. La ratio di tali previsioni è ricollegabile vuoi a criteri di esperienza, vuoi a criteri di probabilità, infine a criteri di verosimiglianza.
E ancora si possono ricordare le presunzioni iuris et de iure -c.d. assolute- che non ammettono la prova contraria.
           
Tra le norme che, come anticipato, presentano una diversa ripartizione dell'onere della prova deve segnalarsi, soprattutto ai fini della presente esposizione, la regola di cui all'art. 1218 cod. civ., secondo la quale sul debitore che non ha eseguito esattamente la prestazione, grava l'onere di provare che l'inadempimento o il ritardo sono dovuti a impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, essendo tenuto, in caso contrario, a risarcire il danno. 

La giurisprudenza, attestatasi fino agli anni '70 su posizioni piuttosto favorevoli al medico, ha cominciato in quegli anni a mutare il proprio indirizzo, fino a creare una sorta di inversione dell'onere della prova nei casi di non difficile esecuzione dell'intervento. All'uopo risulta di estrema chiarezza una recentissima sentenza della Cassazione[5], non ancora pubblicata, ove si legge che: 
nel  giudizio  avente ad oggetto l'accertamento della responsabilita' del medico  chirurgo  per  l'infelice  esito di un intervento chirurgico, l'onere della  prova  si  riparte  tra  attore  e  convenuto  a  seconda della natura dell'intervento  effettuato,  e  precisamente:  
a)  nel caso di intervento di difficile  esecuzione,  il  medico  ha  l'onere di provare soltanto la natura complessa  dell'operazione,  mentre  il  paziente ha l'onere di provare quali siano  state le modalita' di esecuzione ritenute inidonee; 
b) nel caso di intervento  di  facile  o routinaria esecuzione, invece, il paziente ha il solo onere  di provare la natura routinaria dell'intervento, mentre sara' il medico,  se vuole andare esente da responsabilita', a dover dimostrare che l'esito negativo non e' ascrivibile alla propria negligenza od imperizia.
Quindi a dispetto di un intervento di facile esecuzione e del peggioramento delle condizioni del paziente che vi si è sottoposto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, per indirizzo ormai costante[6], distribuisce l'onere della prova tra le parti nel senso di far gravare sul paziente l'onere di provare che l'intervento e/o la terapia erano di facile esecuzione e che ne è derivato un risultato peggiorativo, e sul sanitario l'onere di  fornire la prova contraria, ossia la prova che la sua prestazione è stata eseguita diligentemente e che l'esito dannoso è stato provocato da un evento sopravvenuto imprevisto ed imprevedibile, ovvero da una pregressa condizione particolare del malato che non è stato possibile accertare con la dovuta diligenza professionale.[7]
Quanto poi all'eventualità, che la giurisprudenza più recente ritiene possibile, ossia quella che con il chirurgo estetico il paziente perfezioni  un  contratto  avente ad oggetto un'obbligazione di risultato 
-piuttosto che di mezzi-, la prova di tale contenuto grava sul paziente, così come sul medesimo grava  l'onere di provare l'insufficiente informazione ricevuta dal sanitario[8].

Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale Consumerlaw

[Per motivi di spazio l' articolo completo di note e' riportato su www.scienzaeprofessione.it ]

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PENSIERI E PAROLE 

RR1  La stupidità (di Massimiliano Fanni Canelles) 

 “Stupido è colui che fa un'azione che reca danni a un'altra persona, senza ricavarne alcun guadagno e spesso realizzando una perdita per se stesso”, scrisse Carlo M. Cipolla, grande economista e autore di diversi saggi sull’argomento. Non è detto che questa frase racchiuda la complessa essenza della stupidità ma è certo che lo studio di questo aspetto della mente umana è sempre stato difficoltoso anche, ma non solo, per la mancanza di una chiarezza su cosa essa sia.
Spesso il genio è considerato stupido dalla maggioranza degli uomini che a causa della loro stupidità non si rendono conto della genialità degli individui che incontrano.  Ci sono infatti uomini etichettati come stupidi ma straordinariamente elastici dal punto di vista intellettuale e uomini molto goffi intellettualmente che non lo sono affatto.
Oggi però la comunità scientifica è convinta che questo difetto non coinvolga assolutamente l’aspetto umano legato a bassi livelli di istruzione o all'assenza di stimoli nell'infanzia, ma che si tratti essenzialmente di un deficit intellettivo da rapportare al profilo genetico di ognuno di noi.
Le idee appena sorte propongono la possibilità di “curare” quello che fino a poco tempo fa veniva considerato un aspetto sociale e che ora è diventato disfunzione genica e quindi malattia. “Si può e si deve sconfiggerla rimuovendo il gene responsabile”, ad auspicare l'uso dell' ingegneria genetica per eliminare la stupidità dal pianeta terra è niente meno che James Watson, fondatore del Progetto per il genoma umano e l'uomo che 50 anni fa scopri' il Dna. ''Nei casi di vera stupidità, io parlerei di malattia'', ha sottolineato Watson. ''Non mi sembra giusto che una parte della popolazione nasca senza le stesse opportunità'', ha aggiunto. ''Una volta che esiste il modo di migliorare i nostri bambini non ci si può più fermare”. E come ciclicamente avviene nella storia dell’umanità ecco che nasce una nuova motivazione per selezionare la razza umana perfetta. “Ci saranno genitori che potenzieranno i loro figli, e quei bambini domineranno il mondo''. Watson da tempo difende a spada tratta l’eugenetica, tecnica utilizzata per modificare il Dna dell'embrione che permette di sradicare gravi difetti o il rischio di contrarre particolari malattie in vita. E perché fermarsi all'intelligenza, sottolinea Watson, ''c'e' chi dice che sarebbe terribile se rendessimo tutte le ragazze belle. Io penso che sarebbe meraviglioso”.
Se studiamo la frequenza della stupidità fra le persone che fanno le pulizie nelle aule scolastiche notiamo come questa sia effettivamente elevata. I risultati dei test intellettivi eseguiti su questi operatori hanno mostrato una percentuale estremamente ridotta degli individui intelligenti. Forse questo è dovuto al loro basso livello di educazione o al fatto che le persone più capaci ottengono più facilmente un lavoro qualificato. Ma quando è stata analizzata la percentuale di stupidità fra gli studenti e i professori che frequentano le stesse aule pulite dagli “idioti” la percentuale di diffusione è risultata identica. 
Ma allora chi è in grado di definire cosa sia la stupidità?  Forse gli stupidi sono solo quelli che non riescono ad entrare nel sistema per l’incapacità di adattamento, perché inserirsi significa ogni giorno confrontarsi con gli altri, accettare compromessi e immoralità. L’incapacità ad accettare le regole del gioco significa inadeguatezza, debolezza ma siamo sicuri che queste caratteristiche esprimano un deficit intellettivo? 
L’umanità ha sempre tentato di filtrare il flusso degli uomini selezionando solo gli individui adatti ai canoni del tempo. E forse l’eugenetica all'inizio del terzo millennio risolverebbe il problema alla radice. Per selezionare la razza perfetta non sarà più necessario uccidere i “diversi” come molti popoli hanno tentato di fare in passato, ma sarà possibile ottenere lo stesso risultato emarginandoli o ancor meglio impedire che nascano: immorale? Forse, ed allora la soluzione è farli nascere come vogliamo noi: tutti belli, tutti intelligenti, tutti perfetti…..tutti uguali.

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NL - LE NOVITA' DELLA LEGGE (Di Marco Venuti)

PRINCIPALI NOVITA' IN GAZZETTA UFFICIALE
mese di marzo 2005

La consultazione dei documenti citati, come pubblicati in Gazzetta Ufficiale, è fornita da "Medico & Leggi" di Marco Venuti: essa è libera fino al giorno 23.04.2005. Per consultarli, cliccare qui

DATA GU TIPO DI DOCUMENTO TITOLO DI CHE TRATTA?
02.03.05 50 Legge n. 26 del 01.03.05 Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 dicembre 2004, n. 314, recante proroga di termini Ulteriormente modificati i termini per adottare misure di sicurezza nel trattamento dei dati personali (art. 6 bis)
02.03.05 50 Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano, Provvedimento 03.02.05 Accordo, ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il Ministro della salute, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, concernente «linee di indirizzo per la definizione del percorso assistenziale ai pazienti con ictus cerebrale» .......................

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