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N. 7, anno 2, Maggio 2005
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INDICE
GENERALE
PILLOLE
- Talvolta i defibrillatori impiantabili sono
meglio dell' amiodarone
- L'uso di statine non riduce il rischio di demenza
- Trasmissione interumana dell'influenza aviaria
-
Replicato HCV in laboratorio
-
Terapia
Ormonale Sostitutiva: aumenta rischio di ictus
-
TAO: i pazienti la possono gestire meglio dei medici?
- Quale deve essere la strategia preferita nelle sindromi coronariche acute?
- Giustificato lo screening degli aneurismi dell'aorta
addominale
- Lo stress provoca effettivamente cardiomiopatia con alterazioni
ECG ed enzimatiche
- TOS aumenta rischio di litiasi biliare
- Statine e
osteoartrosi: solo fumo od anche arrosto?
- Polmoniti: beta-lattamici come prima scelta
- Polipi distali del colon: vale la pena un follow-up
sistematico?
- Lo
screening dell'osteoporosi negli anziani riduce il rischio di fratture
del 36%
- Rivascolarizzazione vs terapia medica in anziani
-
Ximelagatran sostituirà il warfarin come
antitrombotico?
- Effetti
a lungo termine della vitamina E nei problemi cardiovascolari e nel cancro
- L'
aerobica fa bene ai cardiopatici, e' confermato
- Trattamenti non farmacologici,
utili per panico e fobia
sociale
- News prescrittive (dalla
Gazzetta Ufficiale): (a cura di Marco Venuti): Ultiva
PROFESSIONE:
- Sospeso IN USA ed Europa il
Valdecoxib
APPROFONDIMENTI
- Screening per celiachia
nell' osteoporosi?
MEDICINA LEGALE E
NORMATIVA SANITARIA
Di Daniele Zamperini per ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale
Università Cattolica.
- Mancato
consenso senza danno alla salute non comporta risarcimento (Avv.
Emanuele Liddo)
- Competente
la Corte
dei Conti per il danno erariale provocato dallo specialista convenzionato
(Corte
Cass., Sez. U, Sent. n. 922 del 21.12.1999).
- Cosa fare delle schede cliniche in caso di
cessazione di attivita?
- ECM: per ora niente
penalizzazioni per chi non raggiunge gli obiettivi
- Il medico e la
legge, cap. 14: La
responsabilità professionale del medico dipendente del Servizio
Sanitario Nazionale (Avv. Nicola Todeschini)
- Il medico e la legge, cap. 15: La
responsabilità per fatto degli ausiliari (Avv. Nicola Todeschini)
NL- LE NOVITA' DELLA LEGGE (Di Marco Venuti): Aprile
2005
Su www.medicoeleggi.it/pillole/freeconsult.htm
Marco Venuti mette a disposizione una serie di articoli su problemi connessi alla
prescrizione dei farmaci.
PILLOLE
A - Talvolta i defibrillatori impiantabili sono
meglio dell' amiodarone
In questo studio sono stati arruolati 2521 pazienti con scompenso cardiaco in classe II o III NYHA e funzione di eiezione inferiore o uguale al 35%. Nel 52% dei casi la causa dello scompenso era di natura ischemica e nel rimanente 48% di origine non ischemica.
I soggetti sono stati suddivisi in 3 gruppi: al primo gruppo si somministrava la terapia standard + placebo, al secondo gruppo la terapia standard + amiodarone e al terzo gruppo la terapia standard + cardioverter-defibrillatore impiantabile a domanda ad una derivazione.
Il follow-up medio fu di 45 mesi e l'end-point valutato il decesso da tutte le cause.
Nel gruppo placebo morì il 29% dei pazienti arruolati, nel gruppo amiodarone il 28% e nel gruppo ICD il 22%.
Non c'erano quindi differenze tra amiodarone e placebo mentre i pazienti trattati con ICD avevano una riduzione del rischio di morte del 23%. Questi risultati non variavano se si consideravano separatamente le cause di scompenso.
Fonte:
Bardy GH et al. for the Sudden Cardiac Death in Heart Failure Trial (SCD-HeFT) Investigators. Amiodarone or an Implantable Cardioverter–Defibrillator for Congestive Heart Failure. N Engl J Med 2005 Jan 19; 352:225-237
Commento di Renato Rossi
E' noto che una delle cause più frequenti di decesso nei pazienti con scompenso cardiaco avanzato è la morte improvvisa di natura aritmica. Per scongiurare questa eventualità è stata proposta una terapia profilattica con amiodarone nei pazienti a rischio. Recentemente inoltre è entrato nell'uso l'impianto di un cardioverter-defibrillatore. Del problema ci siamo occupati recentemente in una pillola pubblicata nel dicembre 2004 . In questa pillola venivano riportati in sintesi i risultati di questo studio (SCD-HeFT) in cui l'amiodarone non ha prodotto nessuna riduzione della mortalità rispetto al placebo mentre buoni risultati si sono avuti con l'ICD.
In termini di numero di soggetti da trattare per evitare un decesso il risultato ottenuto è in linea con quello di altri studi simili: bisogna impiantare un ICD a 16-17 pazienti con le caratteristiche di quelli del trial per evitare un decesso in circa 4 anni.
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B - L'uso di statine non riduce il rischio di demenza
In uno studio[1] sono stati seguiti per circa 3 anni oltre 4000 anziani (età > 65 anni) che al baseline non avevano sintomi di demenza. Al termine
dell'osservazione vennero diagnosticati affetti da demenza 185 soggetti ma
l'uso di statine non era associato ad una riduzione del rischio.
In un altro studio osservazionale [2], dal disegno simile, sono stati seguiti per circa 7 anni oltre 2300 anziani. Al termine del follow-up 312
soggetti soffrivano di demenza ma anche in questo caso non venne osservata
nessuna associazione tra uso di statine e riduzione del rischio.
Fonte:
1. Zandi PP et al. Do statins reduce risk of incident dementia and Alzheimer
disease? The Cache County Study. Arch Gen Psychiatry 2005 Feb; 62:217-24.
2. Li G et al. Statin therapy and risk of dementia in the elderly: A
community-based prospective cohort study. Neurology 2004 Nov 9; 63:1624-8.
Commento di Renato Rossi
Le statine sono farmaci ampiamente usati e i cui benefici nel ridurre gli eventi cardiovascolari sono stati dimostrati in numerosi studi randomizzati
e controllati. Esse sono consigliate nei soggetti con cardiopatia
ischemica, pregresso infarto o ictus, arteriopatia periferica e nel diabete con
associato un altro fattore di rischio cardiovascolare. Inoltre è opportuno
prescriverle nei pazienti senza patologia cardiovascolare nota ma a rischio
elevato.
Studi osservazionali precedenti avevano dato sostanza all'ipotesi che le statine avessero un' azione protettiva contro lo sviluppo di demenza. Si
trattava però soprattutto di studi di tipo caso-controllo o di studi trasversali. Purtroppo questo tipo di studi è quello più a rischio di
bias. Questi ultimi due lavori, sempre osservazionali ma prospettici, sconfessano
invece l'utilità delle statine nel ridurre lo sviluppo di demenza. Non si
può escludere che tali studi siano gravati da un bias di selezione ma i risultati sono in accordo con quelli di due studi randomizzati e
controllati, l' HPS (Lancet 2002 Jul 6; 360:7-22) e il PROSPER (Lancet 2002
Nov 23; 360:1623-1630), che non avevano dimostrato alcun impatto delle
statine sulla funzione cognitiva.
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C Trasmissione interumana dell'influenza aviaria
Documentata la trasmissione da uomo ad uomo del virus dell'influenza aviaria A (H5N1) che ha causato la morte di almeno 32 persone nell'ultima epidemia che ha coinvolto 8 nazioni asiatiche.
Sono stati studiati i casi che si sono manifestati nel 2004 in una stessa famiglia. La madre di una ragazza infettata è giunta ad assisterla da una città lontana e non ha avuto contatto con pollame infetto. La madre è morta di polmonite dopo 16-18 ore di cure non protette prestate alla figlia. La zia si è ammalata di polmonite dopo 5 giorni dall'inizio della malattia nella madre. A seguito dell'esame autoptico il virus H5N1 è stato isolato ed è apparso molto simile da quello isolato nell'epidemia originatasi in Tailandia.
Non sono state individuate altre possibili catene di infezione.
Fonte: pubblicato on line da NEJM January 24, 2005
Link: http://content.nejm.org/cgi/reprint/NEJMoa044021v1.pdf
Commento di Luca Puccetti
Questa notizia è assai allarmante. Delle tre grandi pandemie occorse nel 1918, 1957 e 1968 solo quella del 1918 era dovuta ad una mutazione di un virus aviario. Nel 1957 e nel 1968 i virus in causa mostravano tracce di genoma di virus dell'influenza umana indicando che trattavasi verosimilmente di riarrangiamento tra una specie aviaria ed una umana. La dimostrazione che il virus H5N1 possa trasmettersi da uomo ad uomo pone delle problematiche formidabili. A causa delle caratteristiche del virus se si originasse un'epidemia ben difficilmente questa potrebbe essere controllata come nel caso della SARS. Il virus H5N1 è resistente ai tradizionali antivirali come l'amantadina. E' stata documentata un'attività profilattica e terapeutica dell'oseltamivir. Tuttavia è stata anche documentata l'insorgenza di ceppi resistenti di influenza all'oseltamivir. Poichè in caso di epidemia regionale sarebbe cruciale disporre di strumenti di contenimento della diffusione dell'infezione, risulterebbe opportuno stoccare dosi adeguate di oseltamivir che d'altro canto non dovrebbe essere usato per curare la normale influenza. La diffusione di ceppi resistenti ad oseltamivir crerebbe le premesse per un pericolo di riarrangiamento con insorgenza di ceppi aviari resistenti. La preparazione di un vaccino richiederebbe tempo e molte persone morirebbero. Il NHS sta cercando di prevedere quali caratteristiche debba avere un tale vaccino in modo da ridurre i tempi di sviluppo in caso di necessità. L'influenza aviaria è un fenomeno che non riguarda solo l'Asia. Nel 2003 un'epidemia di influenza aviaria si è sviluppata in Olanda sebbene in tal caso le conseguenze sono state più limitate in quanto era in gioco il ceppo H7N7.
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D Replicato HCV in laboratorio
Replicato in laboratorio, per la prima volta al mondo, il virus dell'epatite C
(Hcv).
I ricercatori del National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases (Niddk) facenti parte dei National Institutes of Health (Nih), hanno riprodotto in laboratorio un ceppo di HCV. E' stato usato un ceppo virale, il genotipo 1, responsabile del maggior numero di infezioni. In realtà sono stati riprodotti solo gli acidi nucleici, che contengono il materiale genetico del virus. Manca l'involucro di lipidi e proteine. Con questo sistema i ricercatori hanno affermato che sarà possibile testare più agevolmente eventuali inibitori della replicazione virale.
(Sch/Adnkronos Salute)
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E - Terapia
Ormonale Sostitutiva: aumenta rischio di ictus
La terapia ormonale sostitutiva (TOS) è associata con un'aumentata incidenza di ictus ischemico e con eventi di maggiore gravità.
Una revisione sistematica di 28 studi randomizzati e controllati comprendenti oltre 39000 pazienti indica che la TOS è associata con un incremento di incidenza degli ictus totali (odds ratio 1.29 (95% CI 1.13 - 1.47), n = 28), di quelli non fatali (1.23 (1.06 - 1.44), n = 21), di quelli mortali o fortemente disabilitanti (1.56 (1.11 - 2.20), n = 14), e in particolar modo ddi quelli ischemici (1.29 (1.06 - 1.56), n = 16), inoltre è emersa un'associazione con ictus più gravi (1.28 (0.87 - 1.88), n = 22). La TOS non è invece risultata associata con ictus emorragici (1.07 (0.65 - 1.75), n = 17) o con TIA (1.02 (0.78 - 1.34), n = 22).
Fonte: BMJ 2005;330:342
Link: Articolo originale
Commento di Luca Puccetti
Nonostante la difesa appassionata dei ginecologi la TOS sembra proprio destinata ad essere fortemente ridimensionata. Dopo i dati sul rischio mammario molti studi hanno messo in guardia contro i rischi cardiovascolari. Questa revisione sistematica di studi controllati e randomizzati aggiunge ulteriori dati a sostegno di una severa limitazione delle indicazioni e della durata della TOS, anche se occorre considerare che oltre la metà dei dati proviene proprio dallo studio WHI (JAMA 2003;289: 2673-84) che aveva già evidenziato un aumento del rischio cardiovascolare. Attualmente i dati della letteratura indicano che la TOS agisce positivamente sul rischio di osteoporosi e di carcinoma del colon, ma è gravata da un incremento del rischio di cardiopatia ischemica e di ictus, di episodi tromboembolici, di dismetabolismo e, a sorpresa, di incontinenza . Gli studi effettuati finora non hanno evidenziato nelle donne in TOS un miglioramento delle performances cognitive o dello stato di benessere psicofisico. Alcuni aspetti quali il tono e l'elasticità della pelle e la sensazione di giovinezza non sono stati adeguatamente studiati. Al momento è dunque opportuno limitare la prescrizione della TOS solo a donne non a rischio (non anziane, non diabetiche o ipertese non cardiopatiche o con evidenza di malattia aterosclerotica o comunque di fattori procoagulativi) che necessitino di controllare i sintomi postmenopausali, se fortemente disabilitanti, e comunque per brevi periodi di tempo. Risulta inoltre cruciale informare adeguatamente le pazienti dei rischi che esse corrono.
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F - TAO: i pazienti la possono gestire meglio dei medici?
Per testare l' ipotesi se si possa affidare ai pazienti la gestione della TAO sono stati reclutati 737 pazienti in terapia con warfarin, successivamente suddivisi in due gruppi. Ad un gruppo veniva consegnato un apparecchio per l'automonitoraggio domiciliare dell'INR, da eseguire una volta alla settimana, e i pazienti venivano istruiti su come aggiustare la dose di warfarin. L'altro gruppo veniva gestito presso una clinica specializzata nella TAO (dosaggio dell'INR una volta al mese con valutazione del risultato da parte di un medico). Il follow-up medio fu di quasi un anno: i pazienti nel gruppo autogestione ottenevano un controllo dell'INR simile a quello ottenuto nel gruppo seguito dal centro specialistico però con un minor numero di complicanze maggiori (2,2% vs 7,3%) e di emorragie minori (14,9% vs 36,4%). Anche i decessi furono minori nel gruppo automonitoraggio (1,6% vs 4,1%).
Fonte:
Menéndez-Jándula B et al. et al. Comparing Self-Management of Oral Anticoagulant Therapy with Clinic Management . A Randomized Trial
Ann Intern Med 2005 Jan 4; 142: 1-10
Commento di Renato Rossi
L'autogestione della terapia anticoagulante orale può essere proposta, almeno nei pazienti più affidabili, così come si propone l'automonitoraggio della glicemia e della pressione?
Secondo questo studio sembrerebbe proprio di si, anzi pare che i pazienti ottengano risultati migliori dei medici.
Bisogna notare però che il trial non era in cieco e che la percentuale di drop out nel gruppo automonitoraggio fu del 21%, il che potrebbe aver provocato un bias nei risultati finali.
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G - Quale deve essere la strategia preferita nelle sindromi coronariche acute?
Non sempre l'approccio invasivo produce esiti migliori.
I pazienti con sindrome coronarica acuta dovrebbero essere trasportati al più vicino ospedale, anche se questo non è attrezzato con un laboratorio di
emodinamica e non è in grado di effettuare interventi invasivi di riperfusione coronarica. Lo suggeriscono i dati del registro GRACE
(Global Registry of Acute Coronary Events), che ha esaminato un totale di 28.825
pazienti ricoverati per sindrome coronarica acuta in 14 paesi.
La probabilità di essere sottoposti a intervento di PCI era del 41% negli ospedali più attrezzati e del 3,9% per i pazienti ricoverati in prima
istanza negli ospedali non in grado di eseguire il cateterismo cardiaco mentre per il by-pass coronarico la percentuale era
rispettivamente del 7.1% vs 0.7%. Nonostante questo il rischio di decesso precoce non era diverso tra i pazienti ricoverati nelle due tipologie di
ospedali.
A distanza di sei mesi il rischio di morte era significativamente più alto nei pazienti ricoverati presso ospedali in grado di effettuare interventi
di riperfusione tramite angioplastica o by-pass durante la fase acuta rispetto ai pazienti ricoverati in ospedali non in grado di farlo (HR 1.14,
95% CI 1.03-1.26). Anche il rischio di sanguinamenti (OR 1.94, 95% CI 1.57-2.39) e di stroke (OR 1.53, 95% CI 1.10-2.14) era significativamente
maggiore nei pazienti ricoverati negli ospedali più attrezzati.
Fonte:
Van de Werf F et al. for the GRACE Investigators. Access to catheterisation facilities in patients admitted with acute
coronary syndrome: multinational registry study BMJ, doi:10.1136/bmj.38335.390718.82
(published 24 January 2005)
Commento di Renato Rossi
Negli ultimi anni si è fatto sempre più frequente il trattamento aggressivo
precoce (PCI con stent o by-pass coronarico) nei pazienti ricoverati per sindrome coronarica acuta.
I dati del registro GRACE costringono ad un ripensamento e forse ad una retromarcia perchè sembra che i pazienti trattati con terapia medica abbiamo
outcomes simili se non addirittura migliori di quelli trattati in maniera più aggressiva. Per la verità gli autori dicono, prudentemente, che i loro
dati non vogliono affermare la pericolosità della rivascolarizzazione invasiva precoce ma semplicemente che sarebbe più opportuna una attenta
selezione dei pazienti da avviare a PCI o by-pass coronarico perchè un uso più oculato di queste risorse sembra efficace perlomeno quanto un uso più
estensivo.
Lo studio GRACE contraddice studi precedenti (studi RITA-3, DINAMI-2 e GRACIA-1) ma è di tipo osservazionale per cui la parola fine sulla questione
non è ancora stata posta. Vi è da notare che il registro GRACE dimostra che
quanto si riesce ad ottenere negli studi randomizzati e controllati non è
poi completamente trasferibile nel mondo reale.
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H - Giustificato lo screening degli aneurismi dell'aorta addominale.
Utile negli uomini di età compresa tra i 65 e i 75 anni ma solo se fumano o hanno fumato
La United States Preventive Services Task Force (USPSTF) ha pubblicato delle linee guida sullo screening degli aneurismi dell'aorta addominale (AAA) effettuato tramite esame ecogragfico dopo aver passato in rassegna la letteraratura al riguardo. Le conclusioni della Task Force sono le seguenti:
1) l'ecografia addominale è affidabile nell'identificare gli AAA (sensibilità del 95% e specificità quasi del 100%) purchè l'esame sia effetuato da personale dedicato
2) negli uomini di 65-75 anni che fumano o che hanno fumato in passato lo screening e il trattamento chirurgico degli AAA più voluminosi (>= 5,5 cm di diametro) diminuiscono la mortalità specifica legata alla loro rottura
3) lo screening però può avere anche effetti negativi legati alle complicanze dell'intervento chirurgico (infarto, insifficienza respiratoria e renale, ischemia spinale, infezioni della protesi) e alla mortalità operatoria (4% circa)
4) non ci sono raccomandazioni specifiche per gli uomini di 65-75 anni che non hanno mai fumato in quanto in questi pazienti gli AAA voluminosi meritevoli di trattamento chirurgico sono poco frequenti rispetto ai fumatori della stessa età per cui il beneficio potenziale dello screening è modesto
5) nelle donne lo screening non viene raccomandato in quanto la frequenza degli AAA è bassa è i benefici dello screening sarebbero inferiori ai rischi
Fonte:
Ann Intern Med 2005 Feb 1; 142:198-211
Commento di Renato Rossi
Gli aneurismi dell'aorta addominale colopiscono circa il 9% dei soggetti > 65 anni e si calcola che negli USA provochino almeno 15.000 decessi all'anno. In quelli di grosse dimensioni è d'obbligo l'intervento chirurgico che ha dimostrato di migliorare la sopravvivenza. Per quanto riguarda gli aneurismi di dimensioni più contenute (inferiori a 5,5 cm di diametro) il trattamento ottimale è ancora dibattuto (vigile attesa vs intervento) in quanto il loro rischio di rottura è basso.
Le linee guida dell'USPSTF hanno recepito i risultati di alcuni studi recenti, soprattutto dello studio MASS (Lancet 2002; 360:1531-39) in cui vennero randomizzati quasi 68.000 uomini di età compresa tra 65 e 74 anni e che dimostrò che lo screening riduce la mortalità da rottura di aneurisma dell'aorta addominale di oltre il 40%: bisogna screenare 710 soggetti per evitare un decesso dovuto ad aneurisma.
Un punto critico però rimane come tradurre nella pratica le raccomandazioni delle linee guida e i risultati degli studi; inoltre bisognerà stabilire quale sia l'impatto economico sui vari servizi sanitari dello screening ecografico routinario in tutti gli uomini di 65-75 anni.
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I - Lo stress può provocare una cardiomiopatia con disfunzione ventricolare sinistra acuta e alterazioni elettrocardiografiche ed enzimatiche
In questo studio sono stati valutati 19 soggetti che dopo uno stress emotivo improvviso e violento presentavano una disfunzione ventricolare sinistra. Tutti i pazienti furono sottoposti a coronarografia e ad ecocardiografie seriate. Inoltre cinque di essi ebbero una biopsia miocardica.
Il quadro clinico era caratterizzato da dolore toracico, edema polmonare o shock cardiogeno. L'elettrocardiogramma mostrava diffuse inversioni delle onde T e un prolungamento dell'intervallo QT mentre in 17 pazienti si potè documentare un aumento delle troponine I ma solo in un paziente vi era evidenza coronarografica di malattia coronarica. La frazione di eiezione media misurata tramite ecocardiogramma al momento dell'ammissione in ospedale era del 20%; essa ritornò normale in media dopo 2-4 settimane. Gli esami ematochimici mostravano un valore elevato di catecolamine plasmatiche.
Fonte:
Wittstein IS et al. Neurohumoral Features of Myocardial Stunning Due to Sudden Emotional Stress
N Engl J Med 2005 Feb 10; 352:539-548
Commento di Renato Rossi
Si sapeva che stress emotivi improvvisi potevano precipitare una disfunzione ventricolare sinistra anche se il meccanismo fisiopatologico rimaneva sconosciuto.
Questo studio ha permesso da un lato di confermare che in effetti lo stress può provocare una patologia cardiaca "similcoronarica" anche in assenza di stenosi anatomica. I pazienti infatti accusavano sintomi suggestivi di ischemia miocardica come dolore toracico, edema polmonare e shock cardiogeno, alterazioni elettrocardiografiche ed enzimatiche e una riduzione marcata della frazione di eiezione del ventricolo sinistro. D'altra parte si è potuto dimostrare che il meccanismo alla base di questa sindrome, che potremmo a ragione chiamare cardiomiopatia da stress, è probabilmente una iperattività adrenergica con esagerata produzione di catecolamine (epinefrina, norepinefrina, dopamina). I pazienti dello studio andavano incontro a risoluzione del quadro clinico e ripristino della funzione ventricolare nel giro di alcune settimane ma non è azzardato pensare che in alcuni soggetti particolarmente vulnerabili uno stress violento e improvviso (come per esempio un lutto) possa provocare, anche in assenza di coronaropatia, un vero e proprio infarto o aritmie mortali.
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L - TOS aumenta rischio di litiasi biliare
La terapia ormonale sostitutiva (TOS) aumenta il rischio di insorgenza di litiasi biliare e/o di colecistopatie.
Due ampi studi americani hanno considerato 22579 donne di età compresa tra 50 e 79 anni non colecistectomizzate. Nel primo studio donne isterectomizzate sono state randomizzate a ricevere 0.625 mg/die di estrogeni coniugati (CEE) o placebo (n = 8376). nel secondo donne non isterectomizzate sono state randomizzate a ricevere CEE e 2.5 mg/die di medrossiprogesterone (n = 14 203). L'end point principale era costituito dalle ospealizzazioni per procedure chirurgiche sulle vie biliari per litiasi. Il follow-up medio è stato di 7,1 anni anni nello studio CEE e di 5,6 anni in quello CEE + MAP . L'incidenza annua di eventi è stata di 78 per 10 000 persone-anno per il gruppo CEE vs 47/10 000 persone-anno del placebo e 55 per 10 000 persone-anno per CEE + MAP (vs 35/10 000 persone-anno del placebo). Entrambi gli studi hanno mostrato un rischio significativamente maggiore per ogni patologia colecistica o procedura chirurgica correlata con gli estrogeni (CEE: HR, 1.67; 95% CI, 1.35-2.06; CEE + MAP: HR, 1.59; 95% CI, 1.28-1.97) o per l'insorgenza di colecistite (CEE: HR, 1.80; 95% CI, 1.42-2.28; CEE + MAP: HR, 1.54; 95% CI 1.22-1.94); o di colelitiasi (CEE: HR, 1.86; 95% CI, 1.48-2.35; CEE + MAP: HR, 1.68; 95% CI, 1.34-2.11) . Inoltre le donne in trattamento con estrogeni hanno presentato un rischio maggiore di subire una colecistectomia (CEE: HR, 1.93; 95% CI, 1.52-2.44; CEE + MAP: HR, 1.67; 95% CI, 1.32-2.11).
Fonte: JAMA. 2005;293:330-339.
Commento di Renato Rossi
L'analisi dei risultati del WHI ha permesso di ricavare molti dati e fra questi anche l'effetto della terapia con estrogeni sul rischio di sviluppare una calcolosi della colecisti. Già si sospettava che la terapia ormonale sostitutiva con estrogeni portasse ad un aumento del rischio di colecistopatie, di litiasi biliare e di interventi chirurgici sulla colecisti, ma i dati derivavano soprattutto da studi di tipo osservazionale.
I risultati del WHI, uno studio di tipo randomizzato e controllato, confermano che l'uso degli estrogeni nelle donne in post-menopausa comporta un'aumentata incidenza di patologie delle vie biliari e di interventi chirurgici collegati.
Quando si deve decidere se somministrare o meno una terapia ormonale sostitutiva bisognerà tener conto anche di questi aspetti negativi. Sempre più il ruolo della TOS appare limitato all'uso per brevi periodi nelle donne che manifestano disturbi importanti della menopausa che comportini uno scadimento della qualità della vita.
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M - Statine e osteoartrosi: solo fumo od anche arrosto?
L'uso di statine è debolmente associato con la presenza di osteoartrosi (OA) di anca severa, ma tale associazione è debole ed anzi l'uso di statine sembra rallentare la progressione radiologica dell'OA.
Sono state considerate 5674 donne (69% delle sopravvissute) di 65 o più anni dello studio sulle fratture osteoporotiche. Sono state valutate le radiografie del bacino basali e dopo un follow-up di 8 anni.
L'artrosi radiologicamente accertabile (ARA) è stata valutata mediante uno score cumulativo. L'uso di statine registrato al sesto e ottavo anno era associato con l'isorgenza di sviluppo di ARA di grado = 3 (OR 1.92, 95% CI 1.03–4.43, p = 0.045) Nelle anche con ARA presente al basale è emersa una tendenza, non significativa, verso una riduzione della progressione dell'ARA nelle donne che erano trattate con statine ( OR 0.69 - 0.76; 95% CI 0.29 - 1.67).
Fonte: J Rheumatol 2005; 32: 106-10
Commento di Luca Puccetti
Nel presente studio nelle donne anziane l'assunzione di statine risulta associata ad un aumento dell'insorgenza di osteoartrosi dell'anca severa rilevabile radiograficamente, ma la malattia non ne risulterebbe aggravata dall'uso. Dato il loro effetto antiinfiammatorio, si poteva speculativamente ipotizzare che le statine diminuissero tale rischio, ma il loro vero impatto sulla malattia non era ben conosciuto. In base a quanto osservato nel presente studio, sussisterebbe una tendenza alla diminuzione della progressione della malattia nei soggetti che hanno osteoartrosi al basale. Questo è un tipico esempio di studio da non effettuare e sicuramente da non pubblicare. E' probabilmente uno studio post hoc, metodologicamente debole e dal risultato molto confuso. Il fatto che le donne con OA siano più frequentemente trattate con statine rispetto alle donne senza OA non è affatto sorprendente, anzi al contrario! L'OA è una patologia spesso associata al sovrappeso ed il sovrappeso è associato al dimetabolismo con relativa iperinsulinemia e glicazione non enzimatica del collageno. Pertanto le donne con OA sono anche più dislipidemiche, più obese e fanno una vita più sedentaria. Dunque le condizioni meccaniche, di sedentarietà e dismetaboliche sono verosimilmente alla base di questa associazione che risulta debolissima e raggiunge la significatività per un soffio e solo per i gradi maggiori di OA radiologica. Inoltre l'uso delle statine durante lo studio non solo non è risultato associato con un aggravamento della OA, ma al contrario con una tendenza, sia pur non significativa, verso una diminuzione della progressione. Gli studi delle statine in ambito reumatologico nell'uomo sono assai limitati. Si sa che nell'artrite reumatoide la speranza di vita è molto diminuita e nelle forme severe essa appare simile a quella di soggetti con malattia coronarica trivasale. Tale diminuita speranza di vita è stata principalmente attribuita alla disfunzione endoteliale indotta dalla flogosi che sta anche alla base del processo aterosclerotico. Se le statine agiscono sulla disfunzione endoteliale della ateroscelrosi perchè non provare il loro effetto anche nelle forme reumatiche? Nel Trial atorvastatin in rheumatoid arthritis (TARA - Lancet 2004;363:2015-21) 116 pazienti con AR sono stati randomizzati in uno studio doppio cieco a ricevere 40 mg di atorvastatina o placebo in aggiunta alla terapia standard. Dopo sei mesi di trattamento la PCR e la VES diminuirono del 50% e 28%, rispettivamente, ma il punteggio dell'attività di malattia diminuì di poco. Questi studi sull'uomo non confermano dunque le prospettive degli studi in vitro e sull' animale. Può essere una questione di dosi?
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N -
Nelle polmoniti acquisite in comunità i beta-lattamici dovrebbero essere gli antibiotici di scelta
Una meta-analisi si è proposta di valutare quale dovrebbe essere la terapia di scelta nelle polmoniti non gravi acquisite in comunità (CAP), in particolare esaminando tutti gli RCT in cui venivano paragonati i beta-lattamici con antibiotici attivi contro i microrganismi atipici. La ricerca ha permesso di reperire 18 RCT per un totale di 6749 pazienti. Non si è trovato che l'uso di antibiotci attivi contro gli atipici porti ad un qualche vantaggio rispetto ai beta-lattamici. Solo per il sottogruppo di pazienti affetti da Legionella gli antibiotici attivi contro gli atipici mostravano una maggior efficacia, che invece non è riusciti a trovare per le polmoniti da Mycoplasma e da Clamidia.
Fonte:
Mills GD et al. Effectiveness of lactam antibiotics compared with antibiotics active against atypical pathogens in non-severe community acquired pneumonia: meta-analysis. BMJ 2005 Feb 26; 330:456
Commento di Renato Rossi
Le varie linee guida forniscono raccomandazioni variabili circa il trattamento empirico delle polmoniti acquisite in comunità. Nelle forme in cui si sospetti una etiologia da germi atipici si consiglia generalmente l'uso di antibiotici attivi in tal senso. In realtà non ci sono dati derivanti da trials clinici che dimostrino che l'uso di antibiotici attivi contro gli atipici migliorino gli outcomes nei pazienti con CAP. Dai dati di questa meta-analisi risulta che i beta-lattamici (nella meta-analisi erano usati soprattutto amoxicillina e amoxi/clavulanico) non sono inferiori agli antibiotici attivi contro gli atipici (per esempio macroloidi e alcuni chinolonici) nel caso di CAP da Mycoplasma o da Clamidia. Questi ultimi farmaci risultano più efficaci nel caso di polmonite da Legionella che però è abbastanza infrequente.
Si può concludere quindi che i beta-lattamici rimangono gli antibiotici di scelta nelle polmoniti non severe acquisite in comunità mentre si può prevedere l'uso di farmaci attivi contro gli atipi in seconda battuta nel caso di non risposta in 24-48 ore.
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O - Nei soggetti con polipi distali del colon il rischio di sviluppare una neoplasia prossimale sembra non essere così elevato da giustificare un follow-up sistematico.
Questa revisione sistematica della letteratura si proponeva di valutare il rischio di sviluppo di neoplasia colica prossimale in soggetti con polipi iperplastici distali del colon-retto. La prevalenza di neoplasia prossimale e di neoplasia prossimale avanzata, in questi pazienti, è risultata essere, rispettivamente, del 26,0% e del 4,4%. Il rischio di sviluppare una neoplasia prossimale in chi ha dei polipi distali, rispetto a chi non ha polipi, è dell'1,81% (95%CI 1,20-2,73). Tuttavia se si tiene conto solo degli studi di buona qualità metodologica questo aumento del rischio scompare. Gli autori hanno stabilito anche che il rischio di neoplasia prossimale del colon in chi ha dei polipi iperplastici distali è inferiore del 31% rispetto a chi ha degli adenomi distale (RR 0.69; 95%CI 0.60-0.80) .
Fonte:
Lin OS et al. Risk of Proximal Colon Neoplasia With Distal Hyperplastic Polyps . A Meta-analysis
Arch Intern Med. 2005 Feb 28; 165:382-390.
Commento di Renato Rossi
Le linee guida generalmente non consigliano di sottoporre a follow-up endoscopico i soggetti con polipi iperplastici del colon distale in quanto si ritiene che la loro potenzialità evolutiva maligna sia scarsa. Tuttavia è possibile che questi pazienti abbiano un aumentato rischio di sviluppare una neoplasia colica prossimale rispetto a chi non ha polipi.
Questa revisione della letteratura non è riuscita a dirimere con chiarezza la questione perchè dimostra che forse questo rischio esiste, ma le prove sono dubbie in quanto l'aumento non è stato riscontrato negli studi di buona qualità. E' stato invece confermato che i polipi iperplastici comportano un rischio di tumore del colon decisamente inferiore rispetto agli adenomi.
La scoperta di polipi iperplastici distali non dovrebbe quindi automaticamente spingere il medico a consigliare un follow-up endoscopico, anche se forse un controllo colonscopico a distanza di 5-7 anni potrebbe essere giustificato.
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P -Lo
screening dell'osteoporosi negli anziani è associato ad una riduzione del
rischio di fratture dell'anca del 36%
In questo studio osservazionale
di coorte sono stati seguiti 3107 anziani (età > 65 anni) arruolati
in quattro stati americani nell'ambito del Cardiovascular Health Study.
Venivano registrate varie caratteristiche per ogni partecipante oltre
alla frequenza di fratture dell'anca ad un follow-up di sei anni. A 1422
pazienti venne eseguita una densitometria ossea a doppio raggio fotonico
mentre 1685 pazienti furono solo sottoposti alle cure mediche usuali.
Da notare però che lo studio non era randomizzato, nel senso che
eseguirono la densitometria i partecipanti che abitavano in California e
in Pensilvania mentre non la eseguirono quelli del Maryland e del Nord
Carolina.
L'incidenza di fratture dell'anca risultò essere di 4.8 per 1.000
persone/anno nel gruppo screenato e di 8.2 per 1.000 persone/anno nel
gruppo non screenato.
Gli autori concludono che lo screening dell'osteoporosi con
densitometria ossea negli over 65 è associato ad una riduzione del
rischio di fratture dell'anca del 36%
Fonte:
Kern LM et al. Association between Screening for Osteoporosis and the
Incidence of Hip Fracture
Ann Intern Med 2005 Feb 1; 142: 173-181
Commento di Renato Rossi
Non esistono studi clinici randomizzati e controllati che abbiano
valutato l'utilità dello screening densitometrico nel ridurre il
rischio fratturativo. Le varie linee guida forniscono raccomandazioni
diverse anche se in generale tutte concordano sulla opportunità di
eseguire una densitometria nelle donne dopo i 65 anni e nei soggetti più
giovani con fattori di rischio per osteoporosi (basso peso corporeo,
menopausa precoce, uso protratto di steroidi, familiarità per fratture
da fragilità, abitudine al fumo, pregressa frattura non traumatica).
Questo studio, pur non essendo randomizzato, giustifica questo
approccio, anche se non si può escludere che fattori di confondimento
non valutati dagli autori possano aver alterato i risultati. C'è da
tener conto anche del fatto che la differenza nelle terapie per
l'osteoporosi praticate nel gruppo screenato e non screenato non sembra
render conto della differenza nella percentuale di fratture, così che
riesce più difficile spiegare l'associazione tra screening e riduzione
delle fratture stesse .
In ogni caso al momento questa è la prova migliore che abbiamo a favore
dello screening densitometrico.
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Q - Rivascolarizzazione vs terapia medica in anziani
I risultati del follow-up a 4 anni dello studio TIME dimostra che nei coronaropatici anziani la strategia ottimale è di impostare una terapia medica ottimale ed avviare alla PTCA i pazienti non responder.
Nei pazienti con angina cronica stabile di età media 58 anni a rischio relativamente basso la rivascolarizzazione miocardica per via percutanea (PTCA) non modifica il rischio di morte e di infarto miocardico non fatale a 7 anni rispetto ad una terapia medica ottimale, ma migliora tuttavia i sintomi e la tolleranza allo sforzo fisico (1).
Lo studio TIME (Trial of Invasive versus Medical therapy in Elderly patients) ha valutato l'effetto della PTCA in pazienti di 75 anni ed oltre (2).
Dopo un anno, non sono state rilevate differenze significative tra i pazienti trattati con PTCA e quelli con terpia medica, ma il 43% dei pazienti inizialmente sottoposti a terapia medica sono stati successivamente rivascolarizzati per angina refrattaria. Pertanto il follow-up è stato allungato a 4 anni (3). La classe funzionale media dei 276 pazienti considerati era 3,2 +/- 0,7. I pazienti randomizzati alla strategia invasiva erano 153, quelli alla strategia conservativa 148. La sopravvivenza nel gruppo PTCA è risultata simile rispetto a quella osservata nel gruppo terapia medica, rispettivamente del 91% vs 96% a 6 mesi, dell'89% vs 94% ad un anno e del 71% vs 73% a 4 anni. Entrambe le strategie hanno dato risultati simili sulla sintomatologia anginosa e sulla qualità della vita, ma l'incidenza di eventi non fatali è risultata superiore nei pazienti assegnati alla terapia medica. E' necessario sottolineare tuttavia che la sopravvivenza dei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione entro il primo anno è risultata aumentata sia nei pazienti assegnati primitivamente alla strategia invasiva (p=0,07), sia in quelli inizialmente assegnati alla terapia medica, ma successivamente sottoposti a coronarografia per angina refrattaria.
Commento di Luca Puccetti
La percentuale di pazienti inizialmente assegnati alla terapia medica e poi rivascolarizzati se da una parte ha costituito un problema nella valutazione dei risultati, tuttavia ha indicato la strategia probabilmente più opportuna da tenere nei coronorapatici anziani anche se ad alto rischio. I pazienti considerati nello studio presentavano infatti un rischio elevato a causa dell'età della classe funzionale e della sintomaticità.
La strategia migliore, anche in questi pazienti, sembra essere quella di impostare una terapia ottimale e valutare l'andamento dei sintomi. Se nel primo anno l'angina, nonostate la terapia massimale, diviene refrattaria allora conviene avviare il paziente alle procedure finalizzate ad una eventuale rivascolarizzazione. Con questa strategia può essere possibile limitare la rivascolarizzazione ai pazienti che realmente possono trarne un reale beneficio senza correre inutili rischi.
Fonte:
1) J Am Coll Cardiol 2003; 42 :1161-70.
2) JAMA 2003; 289 :117-23.
3) Circulation 2004; 110 :1213–1218.
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R Ximelagatran sostituirà il warfarin come antitrombotico?
Ximelagatran è un inibitore diretto della trombina che in futuro potrebbe essere usato in alternativa al warfarin nella fibrillazione atriale non
valvolare e nella trombosi venosa profonda.
In un primo studio [1], denominato THRIVE (Thrombin Inhibitor in Venous
Thromboembolism) sono stati arruolati 2489 pazienti affetti da trombosi venosa profonda, randomizzati al trattamento standard (enoxaparina seguita
da warfarin con target INR tra 2 e 3) oppure ximelagatran 36 mg due volte al
giorno. Dopo un follow-up di 6 mesi il rischio di recidiva di TVP fu del 2,1% nel gruppo ximelagatran e del 2% nel gruppo di controllo; il rischio di
emorragie gravi fu rispettivamente dell'1,3% e del 2,2% mentre quello di morte di 2,3% vs 3,4%. Per contro l'aumento delle transaminasi si verificò
nel 9,6% del gruppo ximelagatran vs 2% nel gruppo controllo. Anche gli eventi coronarici furono più frequenti nel gruppo ximelagatran (0,8% vs
0,08%). Gli autori concludono che ximelagatran è equivalente al trattamento
standard nella TVP. L'aumento degli indici epatici richiede però un monitoraggio frequente della terapia mentre la possibilità che ximelagatran
sia gravato da una maggior percentuale di eventi coronarici richiede ulteriori studi.
Nel secondo studio [2] detto SPORTIF V (Stroke prevention with the oral direct thrombin inhibitor ximelagatran compared with warfarin in patients
with non-valvular atrial fibrillation) sono stati reclutati 3922 pazienti con fibrillazione atriale cronica e almeno un altro fattore di rischio per
stroke, randomizzati a warfarin (target INR tra 2 e 3) oppure a ximelagatran
36 mg due volte al giorno. Dopo un follow-up di 20 mesi vennero valutati la frequenza di stroke e di eventi embolici, che fu simile nei due gruppi (1,6%
per ximelagatran e 1,2% per warfarin). Anche la mortalità totale e la percentuale di emorragie gravi fu simile tra i due trattamenti mentre
emorragie minori furono meno frequenti con ximelagatran. Un aumento delle transaminasi si verificò nel 6% dei pazienti del gruppo ximelagatran. In
questo gruppo un paziente sviluppò una necrosi epatica e un altro morì per
un'emorragia gastrointestinale.
Fonte:
1. Fiessinger J-N et al for the THRIVE Treatment Study Investigators.. Ximelagatran vs Low-Molecular-Weight Heparin and Warfarin for the Treatment
of Deep Vein Thrombosis. A Randomized Trial. JAMA. 2005 Feb 9;293:681-689.
2. SPORTIF Executive Steering Committee for the SPORTIF V Investigators. Ximelagatran vs Warfarin for Stroke Prevention in Patients With Nonvalvular
Atrial Fibrillation. A Randomized Trial. JAMA. 2005 Feb 9; 293:690-698.
Commento di Renato Rossi
Ximelagatran, a differenza del warfarin, ha un effetto antitrombotico immediato ed è completamente eliminato dai reni in 12 ore. Inoltre può
essere somministrato in dosi fisse senza necessità di monitoraggio coagulativo.
In studi precedenti ximelagatran, si è dimostrato più efficace dell'eparina
a basso peso molecolare nella prevenzione del tromboembolismo venoso dopo artroprotesi (Eriksson BI et al. Ximelagatran and melagatran compared with
dalteparin for prevention of venous thromboembolism after total hip or knee
replacement: the METHRO II randomised trial. Lancet 2002; 360: 1441-47).
Inoltre associato all'asa si è dimostrato superiore all'asa da solo nelle sindromi coronariche acute ( Wallentin L et al. Oral ximelagatran for
secondary prophylaxis after myocardial infarction: the ESTEEM randomised controlled trial. Lancet 2003; 362: 789-97).
Il primo studio in pazienti con fibrillazione atriale (Stroke prevention with the oral direct thrombin inhibitor ximelagatran compared with warfarin
in patients with non-valvular atrial fibrillation (SPORTIF III): randomised controlled trial. Executive Steering Committee on behalf of the SPORTIF III
Investigators. Lancet 2003; 362: 1691-1698) aveva randomizzato 3410 pazienti
con fibrillazione atriale non valvolare a ximelagatran (36 mg bid) o warfarin (taget INR tra 2 e 3). L'end-point esaminato (stroke ed embolismo
sstemico) si verificò nel 2.3% del gruppo ximelagatran e nel 3.3% del gruppo
warfarin (differenza non significativa). Lo studio era in aperto ed è durato, in media, 17.4 mesi. Gli episodi di sanguinamento maggiori erano
simili nei due gruppi, quelli minori sono stati più frequenti nel gruppo
warfarin.
Lo studio SPORTIF V era già stato reso pubblico all'American Heart Association Scientific Sessions di Orlando nel novembre 2003. Praticamente è
identico al precedente ma è in doppio cieco.
Sommati insieme i risultati dei due studi nella fibrillazione atriale mostrano che ximelagatran e warfarin si equivalgono: la percenuale di stroke
o embolismo sistemico è stata del 2.5% con entrambi i farmaci.
Dovremo sostituire il warfarin con questo nuovo farmaco? In realtà ximelagatran mostra alcuni problemi di sicurezza a livello epatico e per ora
non sappiamo se si tratti di un effetto di poca importanza. Desta inoltre qualche preoccupazione l'aumento degli eventi coronarici rispetto alla
terapia standard evidenziato dallo studio THRIVE. Giova ricordare che nel settembre 2004 un panel di esperti della FDA ha
espresso dubbi circa l'efficacia e la sicurezza di ximelagatran soprattutto
per l'uso a lungo termine per i possibili effetti tossici a livello epatico
(Medscape Medical News, 2004 sept 13. al sito internet: www.medscape.com).Sarà opportuno attendere i risultati di ulteriori studi prima di mandare in
pensione il glorioso warfarin.
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S Gli
effetti a lungo termine della vitamina E nei problemi cardiovascolari e nel
cancro: Uno studio randomizzato.
Sperimentazioni e
dati epidemiologici suggeriscono che la vitamina E possa essere usata per
prevenire il cancro e malattie cardiovascolari. Gli studi clinici hanno, però,
generalmente fallito nel confermare questi benefici, probabilmente per via
della loro breve durata. Per questo motivo Lonn E, Bosch J, Yusuf S,
Sheridan P, Pogue J, Arnold JM, Ross C, Arnola A, Sleight P, Probstfield J e
Dagenais GR, insieme ai centri HOPE e HOPE-TOO, hanno strutturato uno studio
in doppio cieco a lungo termine per verificare se la vitamina E è
effettivamente in grado di ridurre i rischi di insorgenza del cancro o di
malattie cardiovascolari.
Lo studio è stato articolato in due periodi distinti: il primo (Heart
Outcomes Prevention Evaluation [HOPE]) è durato dal 21 dicembre 1993 fino
al 15 aprile 1999, con pazienti con 55 anni o meno con problemi vascolari o
diabete mellito. Il secondo (HOPE- The Ongoing Outcomes [HOPE-TOO]),
prosecuzione del primo, è durato dal 16 aprile 1999 e il 26 maggio 2003.
Dei 267 centri HOPE, che avevano reclutato 9541 pazienti, 174 centri hanno
partecipato anche nel secondo periodo. Dei7030 pazienti reclutati in questi
centri, 916 sono deceduti all’inizio dell’estensione, 1382 hanno
rifiutato il rinnovo della partecipazione, 3994 hanno continuato, e 738
hanno accettato di partecipare ad un follow-up passivo. La durata media del
follow-up è stata di 7.0 anni.
La somministrazione di Vitamina E è stata strutturata nel seguente modo: un
gruppo veniva trattato con una somministrazione giornaliera di vitamina E
(400 IU), mentre un altro gruppo veniva trattato con placebo. Gli end-points
primari includevano l’incidenza dell’insorgenza del cancro, la morte per
cancro e i problemi cardiovascolari maggiori; quelli secondari includevano
l’angina instabile, la rivascolarizzazione.
I risultati dello studio non mostrano grandi differenze nei gruppi: per
quanto riguarda l’incidenza di cancro, si sono rilevati 552 (11.6%) casi
nel gruppo trattato e 586 (12.3%) casi in quello non trattato; per la morte
per cancro, 156 casi contro 178 (3.3% vs 3.7%) e per i problemi
cardiovascolari maggiori 1022 (21.5%) vs 985 (20.6%). I pazienti trattati
con vitamina E hanno un rischio più alto di scompenso cardiaco e di
ospedalizzazioni per lo stesso motivo.
Le conclusioni a cui questo studio porta sono che in pazienti con diabete
mellito la somministrazione di vitamina E non porta ad alcun miglioramento
nell’ambito di prevenzione del cancro, mentre aumentano i ricoveri per
scompenso cardiaco.
Guido Zamperini
Fonte: JAMA, 2005 Mar 16;293(11):1387-90
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T L'
aerobica fa bene ai cardiopatici
Il disturbo ischemico cardiaco (Ischemic heart
disease (IHD))è uno dei disturbi che maggiormente sono causa di morte negli
stati uniti, e secondo le previsioni lo sarà pèresto in tutto il mondo. I
fattori psicosociali sono ora riconosciuti come componente significativa e
indipendente nell’insorgenza dell’IHD e nelle sue complicazioni
successive. Di conseguenza è stata prestata particolare attenzione nel
ridurre questi fattori di rischio, particolarmente nel settore della
riabilitazione in campo cardiaco.
James A. Blumenthal, PhD, della Duke University Medical Center, Durham,
North Carolina e colleghi hanno confrontato l’infuenza di due pprogrammi
di intervento comportamentale, esercizi aerobici e training di gestione
dello stress, mediante visite routinarie sulle funzioni psicosociali e su
markers per il riskio cardiovascolare.
Il trial di ricerca, randomizzato, include 134 pazienti (92 maschi e 42
femmine, con età fra i 40 e gli 84 anni) con un IHD stabile e ischemia
miocardica da sforzo. Lo studio è durato da gennaio 1999 fino a febbraio
2003.
I partecipanti hanno ricevuto tutti le normali cure mediche; un gruppo ha
inoltre attuato una serie di esercizi aerobici supervisionati, per 35 minuti
tre volte alla settimana per 16 settimane, il secondo gruppo ha attuato
settimanalmente 1.5 ore di training antistress, per 16 settimane.
I ricercatori hanno rilevato che i pazienti impegnati negli esercizi o nel
training mostravano minore depressione rispetto al gruppo che aveva ricevuto
solo le cure routinarie. L’esercizio fisico e il training sono stati
inoltre associati ad un miglioramento rispetto a i marker per il rischio
cardiaco, comparati al gruppo che riceveva sole cure di base.
Guido Zamperini
JAMA. 2005;293:1626-1634.
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U Trattamenti non farmacologici per panico e fobia
sociale
E’ noto, in letteratura, che la fobia sociale (FB) ed il
disturbo di panico (DP) rimettono spontaneamente in meno del 30% dei casi. Sono
inoltre patologie che hanno un costo molto alto in termini di emotività
personale, tanto da minare spesso la possibilità, per i soggetti colpiti, di
poter condurre una vita normale.
Attualmente
il protocollo di cura prevede una esposizione graduale (EG) associata ad una
terapia farmacologica, in quanto precedenti studi hanno mostrato un
significativo miglioramento nella fobia sociale ed un minore rischio di
comorbidità.
L’aggiunta
di una terapia comportamentale-cognitivista sembra aumentare, accoppiata
all’esposizione graduale, la probabilità che gli obiettivi raggiunti si
mantengano anche a lungo termine.
Lo
studio che ha cercato di indagare questo aspetto è stato condotto da Giosuè, E.
di Giovanbattista, C.Bottoni, A. Contestabile, R.Roncone e M.Casacchia,
dell’università dell’Aquila.
Il
campione era costituito da 49 soggetti con Disturbo di Panico (codificato
secondo il DSM IV), di cui 26 affetti anche di fobia sociale, in comorbilità.
31 soggetti sono stati assegnati al gruppo CBT dove, con cadenza settimanale,
venivano trattati mediante tecniche di rilassamento, ristrutturazioni
cognitive, modeling comportamentale legato alle crisi di panico e strategie di
mantenimento dei risultati raggiunti.
18 soggetti sono stati seguiti ambulatoriamente, dove hanno ricevuto, oltre al
normale trattamento farmacologico, una seduta informativa sui disturbi d’ansia.
Gli
strumenti di valutazione usati per definire se il soggetto era reclutabile e
per monitorare l’andamento della terapia sono seguenti:
- Inventario
per l’ansia di “stato” e di “tratto” STAI Y1 e Y2, usato per valutare lo stato
di ansia pre-trattamento e post-trattamento
- Marks
Sheenan Phobia Scale (MSPS, 1983) per la valutazione delle principali fobie.
- Hopkins
Symptom check list 90 (SCL-90), utilizzato per rilevare il livello di
sofferenza per ognuno dei 10 fattori indagati: Somatizzazione,
Ansia-ossessivita’, sensibilità interpersonale, depressione, ansia, ostilita’,
fobia, psicoticismo, paranoia e disturbi del sonno
- Disability
inventory scale sheehan (DISS), che misura il grado di compromissione derivato
dalla patologia
- Questionario
sullo stato di salute (short form –36), che indaga la qualità della vita in
funzione della salute del soggetto.
Alla
fine dello studio si rileva un significativo calo degli indicatori di ansia,
sia di stato che di tratto, rispetto all’origine. Per il gruppo CBT (sottoposto
a trattamento complesso con tecniche comportamentali), inoltre, il calo è risultato
significativamente maggiore rispetto al gruppo trattato ambulatoriamente. Al
follow-up di un anno i punteggi ottenuti mediante lo STAI non mostrano un
ulteriore calo di ansia, ma piuttosto una stabilizzazione della patologia.
E’
possibile dire, quindi, che il trattamento cognitivo-comportamentale conferma una reale utilita' nel trattamento dei
disturbi di ansia.
Guido
Zamperini
Fonte:
Giornale Italiano di Psicopatologia, Dicembre 2004 (supplemento)
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Z- News prescrittive di Marco
Venuti (dalla Gazzetta Ufficiale)
Ultiva - Modificate le
indicazioni terapeutiche: le nuove indicazioni sono:
"è indicata per la produzione di analgesia e sedazione in pazienti in
terapia intensiva sottoposti a ventilazione meccanica".
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PROFESSIONE
CC- Sospeso
IN USA ed Europa il Valdecoxib
IL Valdecoxib è stato ritirato sia in USA che in
Europa. L'FDA ha richiesto a tutti i produttori di antinfiammatori, sia
coxib che FANS tradizionali, escludendo l'aspirina, di includere
informazioni circa il rischio cardiovascolare e gastrointestinale degli
antinfiammatori non steroidei.
Continua la saga dei coxib. A poche settimane dal pronunciamento che li
aveva in qualche modo assolti, la FDA ha chiesto ed ottenuto dalla ditta
produttrice il ritiro dal mercato del valdecoxib. I motivi: dati
insufficienti circa la sicurezza cardiovascolare a lungo termine del
farmaco e alcuni reports ricevuti dall'agenzia federale di reazioni
cutanee gravi e potenzialmente letali verificatesi in pazienti in
trattamento con valdecoxib. Queste ultime reazioni si sono verificate sia
nell'uso a breve termine che a lungo termine. La FDA consiglia i pazienti
che stanno assumendo valdecoxib di contattare il loro medico curante per
avere un farmaco alternativo.
Inoltre la FDA ha chiesto a tutte le ditte che producono FANS (compreso
celecoxib) di modificare la scheda tecnica e i foglietti illustrativi dei
loro prodotti avvisando, in grande evidenza con un warning box bordato,
che l'uso di questi farmaci può provocare effetti collaterali
cardiovascolari e gravi emorragie digestive. Pfizer, come misura
provvisoria in attesa del pronunciamento sui coxib ha deciso di ritirare
il Valdecoxib anche in Europa. Emea raccomanda ai medici di seguire i
pazienti in trattamento con attenzione e ovviamente di non prescrivere il
valdecoxib ad ulteriori pazienti.
comunicato
EMEA
il
comunicato FDA
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APPROFONDIMENTI
AA1
Screening per celiachia in osteoporosi?
La frequenza della celiachia aumenta di 40 volte nei soggetti con osteoporosi e questo, secondo alcuni autori, giustificherebbe il ricorso ad uno screening per la celiachia nei soggetti con osteoporosi.
Ottocentoquaranta soggetti, di cui 266 con e 574 senza osteoporosi, sono stati sottoposti a screening serologico per celiachia. Ai soggetti con anticorpi antitransglutaminasi o antiendomisio è stata proposta l'esecuzione di una biopsia intestinale per confermare la diagnosi. Ai soggetti con celiachia confermata istologicamete è stata proposta una dieta priva di glutine e sono stati seguiti nel tempo e rivalutati per quanto attiene alla massa ossea. La prevalenza di malattia celiaca confermata istologicamente è risultata del 3.4% nei soggetti osteoporotici e dello 0.2% tra la popolazione non affetta da osteoporosi. i livelli di anticorpi antitransglutaminasi erano correlati con la severità dell'osteoporosi. La dieta priva di glutine è risultata associata con un miglioramento del T score densitometrico.
Fonte: Arch Intern Med. 2005;165:393-399
Commento di Luca Puccetti
Gli autori silla base dell'aumentata prevalenza di celiachia in soggetti con osteoporosi suggeriscono di procedere con uno screening generalizzato per la celiachia in tutti i soggetti con osteoporosi. La questione appare assai dubbia. Infatti non vengono riportati in questo studio altri elementi clinici che possono essere di aiuto nel selezionare le pazienti da avviare ad una valutazione diagnostica per la celiachia. In particolare non vengono forniti dati relativi al peso ed alla massa corporea ed ancor più ai disturbi dell'alvo. Sicuramente il basso peso può essere una caratteristica poco discriminante in quanto anche nei soggetti con osteoporosi è più frequente rinvenire pazienti con peso ridotto. Un ulteriore elemento di difficoltà risiede nel fatto che la celiachia negli adulti si presenta sempre più spesso in forma paucisintomatica o con sintomi atipici, come emerge da una recente ed importante review dell'Istuto Superiore di Sanità (ISS). Venti centri clinici italiani specializzati nella diagnosi e nel follow-up della celiachia, coordinati dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), hanno messo a disposizione informazioni cliniche relative a pazienti celiaci. In questo studio sono stati valutati esclusivamente i pazienti diagnosticati con età maggiore di 18 anni. La diagnosi di celiachia è stata accettata solo in presenza di evidenza istologica di atrofia della mucosa intestinale, associata al recupero alla biopsia di controllo dopo una dieta priva di glutine e alla positività ai test sierologici (ESPGHAN criteria).
Sono stati considerati 1968 soggetti. I risultati confermano i dati della letteratura (2) evidenziando la notevole variabilità dell’espressione clinica della celiachia in una popolazione adulta: circa il 66% dei pazienti mostrava due o più sintomi alla diagnosi, mentre solo il 76,4% presentava almeno un sintomo.
L’età media alla diagnosi era di 36,7 ± 13,8 anni, il 75,4% dei pazienti erano donne e il 24,6% uomini. La maggior parte dei pazienti presenta classici sintomi come diarrea (50,3%), dolori addominali ricorrenti (14,7%) e stomatite aftosa (10,5%). E' stato trovato un significativo decremento (p < 0,0001) della percentuale della diarrea nei pazienti diagnosticati dopo il 1993 (43,3%) rispetto a quelli diagnosticati prima del 1993 (58,4%).
Molti studi in diversi Paesi hanno dimostrato che negli ultimi anni c’è una riduzione nella percentuale di celiaci che presentano diarrea, e un calo ponderale (21,5% vs 40,2% prima del 1993) e un significativo aumento dei pazienti asintomatici (11,9 vs 7,9). Tra i principali sintomi extraintestinali i più rappresentati sono anemia (47,6%), calo ponderale (30,2%) ed osteoporosi (7,4%). E' stato trovato un significativo incremento di anemia (41,9% vs 52,5%) ed osteoporosi (5,1% vs 9,3%) nei pazienti diagnosticati dopo il 1993; ciò potrebbe essere dovuto al fatto che negli ultimi anni si è accertata la stretta associazione tra questi due sintomi extraintestinali e la celiachia, e quindi pazienti con anemia e/o osteoporosi sono stati più frequentemente sottoposti ad accertamenti per la celiachia.
Altri sintomi presenti in percentuali più basse includono: ipoprotidemia, dismenorrea, ipoplasia dello smalto dentario, anoressia, ipertransaminasemia e aborti spontanei.
Le principali patologie concomitanti alla diagnosi sono le patologie autoimmuni (dermatite erpetiforme, diabete di tipo I, tireopatie e altre patologie); da notare la presenza già alla diagnosi di neoplasie maligne (2,0%), delle quali ben 18 (0,9%) erano rappresentate dai linfomi non- Hodgkin (NHL) gastrointestinali. Confrontando il tasso di incidenza annuo degli NHL gastrointestinali nei 1968 pazienti celiaci con quello della popolazione generale (3) è stato riscontrato un aumentato rischio relativo nei pazienti celiaci di 3,3 volte (95% IC = 1,8-5,7).
Tra le cause di questa forte associazione sono state ipotizzate:
l’aumentata permeabilità intestinale a carcinogeni ambientali;
la cronica stimolazione antigenica
il rilascio di citochine proinfiammatorie e deficienze nutrizionali dovute alla celiachia (5).
Pur considerando dunque le difficoltà dovute alla mancata presenza di sintomi gastrointestinali che è sempre più frequente, tuttavia ritengo che sarebbe più corretto, prima di proporre uno screening generalizzato, valutare la validità di uno screening effettuato su un campione selezionato in base al profilo di rischio clinico per malattia celiaca (basso peso, infertilità o ipofertilità, disturbi dell'alvo, dolori addominali, anemia). Inoltre sarebbe interessante valutare non solo la relazione tra celiachia e massa ossea, ma anche quela tra celiachia e fratture da osteoporosi. Il ricorso ad uno screening di massa potrebbe essere giustificato solo se si documentasse la possibilità di evitare le fratture legate all'osteoporosi con dieta priva di glutine associata o meno ad altri eventuali interventi.
Riferimenti bibliografici
1. Abdulkarim AS, Murray JA. Review article: the diagnosis of celiac disease. Aliment Pharmacol Ther 2003;17:987-95.
2. Bode S, Gudmand-Hoyer E. Symptoms and haematologic features in consecutive adult coeliac patients. Scand J Gastroenterol 1996;31(1):54-60.
3. Gurney KA, Cartwright, Gilman EA. Descriptive epidemiology of gastrointestinal non-Hodgkin’s lymphoma in a population-based registry. British Journal of Cancer 1999;79(11/12):1929-34.
4. Sigurgeirsson B, Agnarsson B, Lindelof B. Risk of lymphoma in patients with dermatitis herpetiformis. BMJ 1994; 308:13-5.
5. Key T. Micronutrients and cancer aetiology: the epidemiological evidence. Proc Nutr Soc 1994;53:605-14.
Fonte: Istituto Superiore di Sanità Notiziario: 2004 : Vol. 17 - n 6
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MEDICINA LEGALE E
NORMATIVA SANITARIA
Rubrica gestita da D.Z. per ASMLUC: Associazione
Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica
ML01 : Mancato consenso
senza danno alla salute non comporta danno economicamente apprezzabile
Il Giudice Unico, dott. Damiano Spera, del Tribunale di MIlano, Sez.V Civ.,ha enunciato, Sentenza 29/03/2005 ha enunciato il
principio che non è economicamente apprezzabile il danno non patrimoniale da mancato consenso informato
se non vi sia stata lesione del diritto alla salute.
Il principio consolidato in giurisprudenza secondo cui il medico non può più intervenire sul paziente senza
averne ricevuto prima il consenso non ha per oggetto un atto puramente formale e burocratico, ma è la
condizione imprescindibile per trasformare un atto illecito (la violazione dell'integrità psicofisica) in
un atto lecito.
Da ciò consegue che la mancata richiesta del consenso effettivo informato deve
valutarsi quale autonoma fonte di responsabilità in capo ai medici per lesione del diritto
costituzionalmente protetto di autodeterminazione, la cui lesione dà luogo ad un danno non patrimoniale.
Tuttavia nelle ipotesi in cui all'esito dell'intervento cui non sia stato dato il consenso
informato da parte del paziente (o in cui tale consenso sia stato prestato per un intervento eseguito
con modalità diverse da quelle previste), in assenza di colpa medica, non consegua alcun pregiudizio alla
salute del paziente, ma anzi un miglioramento delle sue condizioni psicofisiche, la lesione del diritto
all' autodeterminazione produce sì un danno non patrimoniale seppure ontologicamente trascurabile o
comunque di entità economica non apprezzabile.
Emanuele Liddo - Avvocato a Pescara
[E' utile specificare, per gli inesperti, che
l' argomento della sentenza e' il mancato consenso alle cure, che
nulla ha a che vedere col consenso al trattamento dei dati personali.
Tale sentenza indica un nuovo orientamento giurisprudenziale, che speriamo
sia poi confermato e consolidato in quanto incide in modo importante sulla
prassi medico-chirurgica. Finora il mancato consenso era stato spesso
considerato danno illecito di per se', risarcibile indipendentemente dal
concreto danno alla salute che ne fosse derivato. Puo' essere accaduto
quindi, ad esempio, che il chirurgo trovatosi di fronte, nel corso di un
intervento, ad una patologia imprevista che imponeva un intervento diverso
da quello per cui aveva ricevuto il consenso, si sia trovato a dover poi
difendere il proprio operato, pur ineccepibile sul piano sanitario, dalle
pretese risarcitorie del paziente. La consapevolezza della mancanza di un
danno risarcibile potrebbe attenuare la conflittualita' in questo settore.
DZ]
(La sentenza sara' pubblicata per esteso su www.scienzaeprofessione.it)
ML1
- Se
lo specialista convenzionato arreca un danno erariale alla ASL, il
giudizio spetta alla Corte dei Conti
(Corte
Cass., Sez. U, Sent. n. 922 del 21.12.1999).
Nell'ambito
della complessa e molteplice attività svolta dai medici specialisti in
regime di convenzionamento
esterno, sulla base delle convenzioni nazionali con le U.S.L. (ora A.S.L.),
previste dall'art. 48 della legge
n. 833 del 1978, anche nel sistema sorto a seguito
della istituzione, in forza di detta legge, del servizio
sanitario nazionale, accanto all'esercizio delle prestazioni
medico-professionali legali (che ha luogo sulla base di rapporti di diritto
privato fra i medici specialisti e le U.S.L., con conseguente estraneità
dei professionisti alla struttura amministrativa dell'ente e devoluzione
alla giurisdizione del giudice ordinario), esistono compiti "lato sensu"
di certificazione sanitaria e finanziaria, il cui svolgimento si inserisce
nell'ambito dell'organizzazione strutturale, operativa e procedimentale
dell'U.S.L. ed ha natura amministrativa, con la conseguenza che il
professionista con riguardo a detti compiti, operando in forza di una
devoluzione da parte dell'U.S.L., li svolge in esecuzione di un rapporto di
servizio. Ne discende che, allorquando si assuma verificato un danno
erariale che si ricolleghi a comportamenti del professionista riconducibili
a detta attività amministrativa, in ordine alla relativa responsabilità
sussiste la giurisdizione contabile della Corte dei Conti (nella specie si
contestava ad un professionista, come causa del danno erariale, la redazione
di impegnative inusuali, incongrue od incomplete, nonché di prescrizioni
eccessive e di fatturazioni multiple e gonfiate per false prestazioni
ambulatoriali).
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ML2 Cosa fare
delle schede cliniche in caso di cessazione di attivita?
Il
Garante, nella recente legge sulla privacy, ha chiarito le modalita’ di
comportamento da tenere da parte di un sanitario in caso di cessazione di
attivita’.
E' importante, per i medici, quell' aspetto riportato all’ art. 16 del
D.L. 196/03, che dispone le modalita’ di cessazione del trattamento dei
dati.
Viene ivi disposto che, in caso di cessazione (per qualsiasi causa) di un
trattamento, i dati detenuti possono essere:
a. distrutti
b. ceduti ad altro titolare purche’ destinati a un trattamento
simile a quello per cui sono stati raccolti (ad esempio nel caso che l’
attivita’ di un medico pensionato sia rilevata da un nuovo
medico).
c. conservati per fini esclusivamente personali e non destinati a diffusione.
d. conservati o ceduti ad altro titolare per scopi storici, statistici o
scientifici in conformita’ alla Legge, alla
normativa comunitaria e ai codici di deontologia.
Questa disposizione chiarisce (anche se puo' rimanere qualche zona d' ombra)
quanto sia necessario e sufficiente fare, nella maggior parte dei casi, in
occasione di chiusura dell’ambulatorio.
Infatti il medico che cessasse la propria attivita’ si trovava finora
nell’imbarazzante situazione di non sapere cosa fare dei propri archivi
(contenenti generalmente abbondanti quantita’ di dati personali e dati
sensibili), trovandosi sovente combattuto tra diverse esigenze.
Si era perfino diffusa la voce che le schede cliniche andassero consegnate
alla ASL!
Invece egli potra’ ora semplicemente distruggerli oppure potra’ cederli
a un eventuale medico che a lui subentri (purche’ questi se ne serva, in
conformita’ alla normativa, per scopi di assistenza e cura;
questa norma vale ovviamente solo per i dati dei pazienti che dovessero
iscriversi al nuovo medico).
Il medico pensionato potra’ anche conservare a proprio uso una copia di
questi dati, in vista di una possibile futura
utilita’, ad esempio nel caso di eventuali contestazioni civili, penali o burocratiche
concernenti la sua attivita’ nel periodo in cui svolgeva la sua
professione.
Potra’ anche utilizzare i dati del proprio archivio per scopi di ricerca o
di statistica, badando pero’ ad anonimizzarli nel rispetto della normativa
generale.
Daniele Zamperini
Guido Zamperini
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ML3 ECM:
per ora niente penalizzazioni per chi non raggiunge gli obiettivi
E il Governo annuncia “mutamenti radicali”
Per il personale sanitario dipendente o convenzionato non ci saranno
penalizzazioni in caso di mancato raggiungimento del previsto numero di
crediti formativi Ecm: lo ha detto il sottosegretario Guidi durante la
seduta del 16 marzo della XII commissione della Camera, in risposta a
un’interrogazione dell’on. Martini (Lega); questo perché – ha detto
l’esponente del Governo – le norme vigenti rinviano questa previsione ai
Contratti collettivi di lavoro (che attualmente non la contengono). Il
Sottosegretario ha comunque annunciato un radicale mutamento del programma
di educazione continua in medicina, col passaggio dal sistema dell'accreditamento
degli eventi a quello dell'accreditamento dei provider; tutto è legato al
raggiungimento di un accordo tra Stato e Regioni, che potrebbe essere
trovato già nei prossimi giorni. L’ipotesi – avanzata proprio dall’on.
Martini – di sgravi fiscali al personale sanitario per recuperare i costi
sostenuti per l’aggiornamento, secondo Guidi va attentamente valutata.(Cosa
è successo in Parlamento? Edott.it Rassegna settimanale di notizie da
Senato e CameraN. 3/2005).
Commento:
La notizia appare molto consolante e falsamente tranquillizzante
per i medici che inseguono freneticamente i corsi ECM per conseguire il
punteggio necessario, tuttavia quanto discusso alla Camera e' stato gia'
superato (per i Medici di Famiglia) dall' approvazione della nuova
Convenzione, che stabilisce, all' art. 10:
" Il medico che non frequenti i corsi obbligatori per due anni
consecutivi è soggetto all’attivazione delle procedure di cui all'art. 30
per l'eventuale adozione delle sanzioni previste, graduate a seconda della
continuità dell'assenza.". (L' art. 30 prevede provvedimenti disciplinari con sanzioni che vanno dall'
ammonimento verbale alla interruzione del rapporto convenzionale).
Possiamo star tranquilli per gli anni precedenti, quindi, ma ora e'
indispensabile, almeno per questa categoria, seguire i corsi obbligatori.
Gli sgravi fiscali sono gia' attuabili,
ma la speranza sarebbe quella che si arrivi ad una gratuita' di questi
corsi, proprio per il fatto che costituiscono un obbligo.
Daniele Zamperini
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MLL1-
Il medico e la legge: cap
14: La
responsabilità professionale del medico dipendente del Servizio
Sanitario Nazionale
Per
affrontare la disamina del problema di emergenza non certo antica, seguirò
soprattutto, dato il pressoché silente atteggiamento di dottrina e
giurisprudenza, antecedente alla fondamentale sentenza della Corte di
Cassazione n. 2144 del 1988, il ragionamento della Suprema Corte nella
predetta sentenza, nonché i commenti dottrinali che ne sono seguiti[1].
La scelta che l'interprete si trova a dover operare è strettamente
ricollegata all'analisi dell'art. 28 d.p.r. 761/79 nei suoi rapporti con la
disciplina del codice civile in merito alle professioni intellettuali.
Infatti l'art. 28 d.p.r. 761/79, rinviando al t.u. degli impiegati civili
dello Stato, introdurrebbe una differente disciplina per i medici dipendenti
pubblici rispetto a quelli privati, comportando l'obbligo del medico
dipendente di rispondere personalmente dei danni arrecati ad altri
nell'esercizio delle proprie attribuzioni solo se si tratti di danno
ingiusto -violazione di un dritto soggettivo commesso con dolo o colpa
grave- mentre negli altri casi il terzo danneggiato potrebbe soltanto agire
contro la pubblica amministrazione che avrebbe poi facoltà di rivalersi nei
confronti del proprio medico dipendente.
La disparità di trattamento che ne deriverebbe, invero non del tutto
comprensibile, potrebbe superarsi considerando l'art. 28 norma generale e
valorizzando la specialità della disciplina dettata dal codice civile in
merito alle professioni intellettuali, che troverebbe pertanto applicazione
anche in riferimento ai medici dipendenti.
Ebbene, nella sentenza in commento il ricorrente ha invocato per l'appunto
l'applicazione dello statuto per gli impiegati civili dello stato. Ma la
risposta della Suprema Corte è stata netta:
Il motivo e' destituito di fondamento.
E' amministrazione pubblica l'attivita' concreta svolta dallo Stato o da
altro ente pubblico per la realizzazione di interessi generali. Nell'ambito
di tale attivita', indirizzata al conseguimento di quei fini, lo Stato o
altro ente pubblico esercita poteri pubblicistici, che possono incidere,
direttamente o indirettamente, su diritti soggettivi di privati.
Diversa e' la natura dell'attivita' svolta dallo Stato o da altro ente
pubblico nello svolgimento di un servizio pubblico. I servizi pubblici,
assunti ed organizzati dallo Stato o da altro ente pubblico, che li
gestisce, sono predisposti a vantaggio e nell'interesse dei privati, che,
fattane richiesta, ne usufruiscono. Non esiste, in tal caso, una posizione
di potere dello Stato o dell'ente pubblico che gestisce il servizio; a
differenza dell'attivita' amministrativa svolta per la realizzazione di
interessi generali.
Il privato, fattane richiesta, ha un diritto soggettivo alla
prestazione del servizio pubblico in suo favore; e al diritto soggettivo del
privato corrisponde, ed e' correlato, il dovere di prestazione dello Stato o
del diverso ente pubblico in favore del privato richiedente. A seguito e per
effetto della richiesta, si costituisce, quindi, un rapporto giuridico, di
natura pubblicistica, tra il privato e lo Stato o il diverso ente pubblico,
strutturato dal diritto soggettivo del primo alla prestazione del servizio
pubblico e dal dovere del secondo di eseguire la prestazione.
Quanto poi alla configurazione, nell'alternativa tra responsabilità
contrattuale ed extracontrattuale, del rapporto, la Suprema Corte esclude
che si tratti di responsabilità extracontrattuale, giacché sussiste, al
contrario, un rapporto giuridico all'interno del quale la prestazione viene
prestata. Inoltre il riconoscimento che l'attività prestata è certo di
tipo professionale, e del tutto simile a quella posta in essere dal libero
professionista, porta ad affermare la necessità di un'interpretazione
analogica e dell'applicabilità quindi delle regole che disciplinano la
responsabilità professionale medica in esecuzione di un contratto d'opera
professionale. Poste queste premesse l'applicabilità anche dell'art. 2236
cod. civ. sembrerebbe essere conseguenza immediata.
Sgombrato
il campo dai dubbi che assillavano la configurabilità del tipo di
prestazione dei medici dipendenti, la Corte di Cassazione passa ad
analizzare i rapporti tra la responsabilità dell'ente e quella del medico,
fondando la propria ricostruzione sulla lettura dell'art. 28 Cost.,
conseguendone l'affermazione della responsabilità del medico oltre a quella
dell'ente, e valutando la medesima tipologia di attività anche in capo al
medico dipendente, ne deduce l'applicabilità delle norme sancite nel codice
civile.
Altre
pronunce successive[2],
basandosi sulla presente, hanno confermato l'impostazione che si è cercato
d'illustrare, spingendosi anche alla disamina dei casi simili[3].
Ma per un'analisi più approfondita del tema si rimanda a quanto osservato
più oltre in tema di responsabilità civile degli enti ospedalieri, al
capitolo quinto.
Concludendo,
e riprendendo il filo del discorso relativo alla configurabilità del
concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, potrebbe
dirsi che l'ente ospedaliero risponde nei confronti del paziente danneggiato
secondo i canoni della responsabilità contrattuale, dato il rapporto
giuridico esistente, mentre il sanitario che in particolare ha prestato la
propria opera nella fattispecie, risponderà secondo lo schema della
responsabilità extracontrattuale per il danno cagionato, non sussistendo,
in capo allo stesso, responsabilità fondata su un pregresso rapporto
giuridico diretto con il paziente danneggiato. E ancora, in adesione alla
teoria del cumulo di responsabilità può dirsi che il paziente potrà
scegliere se agire nel confronti dell'ente ospedaliero anche per illecito
extracontrattuale, essendo stato comunque colpito un bene tutelato erga
omnes anche a prescindere da un rapporto giuridicamente rilevante con l'ente
ospedaliero medesimo.
La scelta, ben inteso, avverrà sulla scorta di una valutazione del
danneggiato che terrà conto delle differenze di disciplina, dell'eventuale
decorso del termine prescrizionale più breve, anche se l'auspicato
avvicinamento dei criteri di disciplina delle due forme di responsabilità
potrà forse in futuro allineare ancor di più le stesse, anche per il
tramite di appositi interventi legislativi.
In conclusione è opportuno accennare
all'azione di rivalsa dell'ente ospedaliero nei confronti del medico
dipendente, una volta accertata la responsabilità di quest'ultimo e
osservare che la giurisdizione spetta alla Corte dei Conti[4]
.
Avv.
Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio
Legale Consumerlaw
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MLL2 Il
medico e la legge, cap. 15: La responsabilità per fatto degli
ausiliari
Quando ci si accinge ad affrontare i
problemi sorgenti dai rapporti tra debitore e ausiliari nell'esecuzione di
un rapporto obbligatorio, l'interrogativo di fondo al quale dare una
risposta è se e chi risponda dei danni provocati dagli ausiliari medesimi[1].
L'art. 1228 cod. civ.[2]
risolve il dilemma, disponendo che il debitore risponde anche dei fatti
dolosi o colposi commessi dai terzi dell'opera dei quali si avvalga
nell'adempimento dell'obbligazione.
Appare pertanto subito chiaro il presupposto fondamentale di tale
responsabilità : la circostanza che si tratti di fatti posti in essere
dall'ausiliario su incarico del debitore, nell'esecuzione del rapporto
obbligatorio, e che configurino un inadempimento dell'obbligazione che il
debitore è tenuto ad adempiere.
Il fondamento di tale impostazione, emanazione del principio generale
dell'imputazione giuridica al debitore del fatto dell'ausiliario, si trova,
secondo Bianca, nell'affermazione di un esigenza: che il creditore possa
fare affidamento sulla responsabilità originaria del debitore che si
avvalga di terzi nell'adempimento dell'obbligazione.
Quindi, i fatti ai quali fa riferimento l'articolo in esame, debbono
comportare un'impossibilità -anche temporanea- della prestazione, che può
incidere anche sui momenti relativi ai c.d. oneri preparatori, ovvero
arrecare un danno ai beni del creditore[3],
violando così la diligenza richiesta nell'adempimento.
La pertinenza del danno che dovesse prodursi in capo al creditore, rispetto
al rapporto obbligatorio sussistente, è descritta da un ventaglio di
possibili rapporti sui quali l'esistenza dell'obbligazione produce i propri
effetti, nell'ottica del comportamento improntato alla cautela e alla
diligenza che il debitore deve tenere per non danneggiare in alcun modo i
beni del creditore. Al di fuori di questa sfera potrebbe tutt'al più
sussistere responsabilità extracontrattuale dell'ausiliario nei confronti
del creditore.
Merita di essere brevemente analizzata anche la responsabilità
dell'ausiliario, caratterizzata, come detto nell'art. 1228 cod. civ., da
dolo e/o colpa. I criteri di valutazione della responsabilità
dell'ausiliario, fatte salve le premesse sulla riconducibilità delle
conseguenze al debitore originario, poco sopra accennate, non possono che
dipendere dagli stessi criteri in base ai quali viene valutata la diligente
prestazione del debitore; sembrerebbe infatti fuori luogo valutare la
diligenza richiesta dall'ausiliario diversamente da quanto non si faccia per
la diligenza richiesta, nell'adempimento dell'obbligazione, al debitore.
Risulta pertanto consequenziale valutare il comportamento dell'ausiliario
del prestatore d'opera professionale sulla scorta delle valutazioni
precedentemente condotte in materia di responsabilità contrattuale e di
diligenza necessaria nell'adempimento, che non sarà semplicemente quella
del buon padre di famiglia ma quella specifica, espressa dallo standard
medio di riferimento rappresentato dalla categoria di appartenenza.
Se invero il debitore sia in questo caso un medico, e se è vero che a
questi è richiesta la diligenza "del buon medico di famiglia e/o
specialista", la medesima diligenza sarà pretesa a
buon diritto
dall'ausiliario del quale il medico stesso si serva nell'adempiere alla
propria prestazione. Una soluzione diversa graverebbe sull'auspicabile
esigenza di uniformità e certezza delle responsabilità in gioco, non
sembrando altrimenti sostenibile alla luce delle premesse illustrate.
Certo
è che la suddetta responsabilità dell'ausiliario è da leggersi in
rapporto a quella del debitore, nel senso che sul debitore grava anche
l'onere di verificare la rispondenza dell'attività dell'ausiliario alla
diligenza richiesta, nonché la pronta attivazione, ogni qualvolta dovesse
risultare necessario operare la tempestiva sostituzione dell'ausiliario che
non ottemperasse ai propri doveri. Pertanto non potrebbe certo essere
invocata la ricorrenza del caso
fortuito -liberatoria di responsabilità- al cospetto della sopravvenuta ed
imprevista inidoneità dell'ausiliario alla prestazione dei propri compiti,
qualora si potesse dimostrare la prevedibilità di tale emergenza. Non
merita più che un accenno l'eventualità che il medico conosca l'imperizia
dell'ausiliario e che, ciò non di meno, se ne serva, conseguendone l'ovvia
responsabilità del primo, secondo lo schema esposto.
Tornando
ad un esame più letterale del disposto legislativo, si può notare altresì
come la norma indichi nella sussistenza di un incarico, conferito dal
debitore (per es. il medico) all'ausiliario (per es. altro collega), un
altro presupposto fondamentale per la sussistenza della fattispecie, non
potendo ricollegarsi al debitore una responsabilità che dipenda da atti
compiuti dall'ausiliario senza averne ricevuto incarico, e pertanto nella
insussistenza di un rapporto nel quale il debitore <<si vale
dell'opera di terzi>>.
Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio
Legale Consumerlaw
[Per
motivi di spazio gli articoli completi di note sono pubblicati su www.scienzaeprofessione.it
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NL
- LE NOVITA' DELLA LEGGE (Di Marco Venuti)
PRINCIPALI
NOVITA' IN GAZZETTA UFFICIALE
mese di aprile 2005
|
La
consultazione dei documenti citati, come pubblicati in Gazzetta
Ufficiale, è fornita da "Medico & Leggi" di Marco
Venuti: essa è libera fino al giorno 23.05.2005. Per consultarli,
cliccare qui
|
DATA
GU |
N° |
TIPO
DI DOCUMENTO |
TITOLO |
DI
CHE TRATTA? |
01.04.05 |
75 |
Legge n.
43 del 31.03.05 |
Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 gennaio 2005, n.
7, recante disposizioni urgenti per l'università e la ricerca, per
i beni e le attività culturali, per il completamento di grandi
opere strategiche, per la mobilità dei pubblici dipendenti, nonchè
per semplificare gli adempimenti relativi a imposte di bollo e tasse
di concessione. Sanatoria degli effetti dell'articolo 4, comma 1,
del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 280 |
Commissione
per la vigilanza e il controllo sul doping (art. 5-quinquies);
tessera sanitaria (art. 7-undevicies) |
05.04.05 |
78 |
Decreto
del Ministero della Salute n. 46 del 22.02.05 |
Regolamento
recante norme per la pubblicità dei prodotti sostitutivi del latte
materno - Modifica dell'articolo 7 del decreto del Ministro della
sanità 6 aprile 1994, n. 500 |
............. |
13.04.05 |
85 |
Decreto
del Ministero della Salute del 03.03.05 |
Protocolli
per l'accertamento della idoneità del donatore di sangue e di
emocomponenti |
............. |
13.04.05 |
85 |
Decreto
del Ministero della Salute del 03.03.05 |
Caratteristiche
e modalità per la donazione del sangue e di emocomponenti |
............. |
14.04.05 |
86 |
Determinazione
della Conferenza Stato Regioni del 03.03.05 |
Accordo,
ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n.
281, tra il Ministro della salute e i Presidenti delle regioni e
delle province autonome, concernente il Nuovo piano nazionale
vaccini 2005-2007 |
............. |
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